martedì 19 aprile 2011

Tie and Dye: lega e tingi


Una delle tecniche più stupefacenti per la tintura della stoffa che in India si utilizza da secoli è la tecnica del tie and dye, o Bandhani, dalla radice sanscrita bandh, legare, fissare.
La ragione dell'uso di questo termine sta nel sistema molto particolare che prevede fasi successive di bagni di colore con tinte diverse, creando motivi decorativi che risultano da una legatura del tessuto in piccolissimi nodi.
Pare che questa tecnica fosse utilizzata fin dall'epoca della civiltà della Valle dell'Indo, circa 4500 anni fa, in seguito a ritrovamenti di reperti tessili che mostrano motivi decorativi a puntini quasi identici a quelli di oggi. La zona in cui le stoffe bandhani vengono prodotte ancora oggi è quella del Rajasthan e del Gujarat, dove interi gruppi familiari si dedicano alle diverse fasi di produzione: dal disegno dei motivi decorativi sulla stoffa, alla legatura minutissima, alla tintura con colori naturali.

La famiglia di Jabbar Khatri (i Khatri sono una casta mussulmana di tessitori, tintori e decoratori della stoffa) mi ha ospitato lo scorso gennaio nella casa di Bhuj in Kutch per mostrarmi nei particolari le tecniche per la produzione della stoffa bandhani.
Jabbar è un giovane imprenditore che ha deciso, assieme al fratello, di intraprendere questo lavoro, cui il padre aveva rinunciato per dedicarsi ad un più sicuro impiego in banca. Jabbar mi racconta del suo grande interesse all'arte di famiglia, dei nonni e bisnonni, e della sua decisione di studiare ad Ahmedabad presso il famosissimo NID - National Institute of Design -, dove si è diplomato con il massimo dei voti.
Tornato a Bhuj decide dunque di tentare questa strada in cui crede con passione, forte anche della collaborazione con alcuni giovani stilisti indiani emergenti che gli commissionano seta tinta con la tecnica bandhani per i loro capi di moda giovane.
Inizia così l'impresa  - Sidr Craft -, assieme al fratello, ma anche al padre, ormai in pensione, alla madre e al resto della famiglia - giovane moglie compresa - coinvolti tutti quanti  nelle diverse fasi della lavorazione della stoffa.


Si inizia dal disegno, prima tracciato su una carta da lucido e poi trasferito con la tecnica dello spolvero sulla stoffa. Una mistura blu di indaco e kerosene viene distribuita con cura sulla carta per fare in modo che passi attraverso i forellini fino al tessuto bianco, lasciando un delicato contorno a puntini.


La stoffa viene poi piegata più volte in modo che il disegno abbozzato sia perfettamente sovrapposto nei diversi strati di piegature, per essere poi legato -puntino per puntino- dalle mani veloci e precise delle donne di famiglia.

Questa parte del lavoro è davvero impressionante: occorrono diversi giorni per legare con un filo di cotone tutti i punti del disegno di base. La stoffa viene 'pizzicata' grazie ad un'unghia di metallo e prontamente stretta da un nodo di filo. In questo modo la stoffa - che assume un aspetto a nido d'ape - viene preparata per la tintura.


Prima viene immersa e fatta bollire in una soluzione preparatoria, poi sciacquata più volte e trasferita nel bagno di colore. In questo caso, l'indaco in polvere viene pesato in base alla quantità di tessuto da tingere e immerso in acqua. Come già spiegato, il bagno di indaco è tiepido; dura molto tempo, e occorre ogni tanto ravvivarlo con altro indaco perchè mantenga una capacità di tintura soddisfacente.
Il tessuto viene tenuto a bagno per qualche minuto e massaggiato per far penetrare nelle fibre il colore naturale. Poi finalmente viene estratto e steso al sole in  modo che l'ossigeno trasformi le sostanze coloranti (che all'inizio appaiono verdi) in un bel colore blu.


Quando la stoffa è abbastanza asciutta, si procede con la slegatura, che a volte viene lasciata al cliente, che può decidere di tenere il tessuto arricciato oppure può tirare con forza i due capi facendo saltare i fili, che rivelano i punti bianchi del disegno.


Jabbar mi mostra con gentilezza e grande disponibilità tutte le fasi della lavorazione del tessuto; mi rendo conto di quanto ami questo lavoro e desideri migliorarlo e promuoverlo. Sia lui che il fratello - racconta - hanno vinto diversi premi e riconoscimenti: nel 2006, 2007 e 2008 hanno ricevuto il premio Unesco Seal of Excellence, mentre nel 2007 lo stesso Jabbar è stato invitato all'Università di Warwick e al Victoria and Albert Museum di Londra per una dimostrazione della sua arte.
Infine, negli ultimi anni entrambi i fratelli hanno viaggiato molto, per fiere e mostre internazionali, per parlare di questa meravigliosa eredità che cercano di conservare e tramandare con così tanta passione.

mercoledì 13 aprile 2011

Un tempio di campagna


Domenica 3 aprile scorso si è svolta a Pegognaga (MN) la cerimonia di posa della prima pietra di quello che sarà il secondo più grande tempio hindu costruito ex novo sul territorio italiano.
Ero stata invitata da tempo dall'amministrazione comunale, che avevo incontrato in occasione di una mia proiezione del documentario Sulle orme di Gandhi presso il centro culturale Livia Bottardi Milani.
In effetti a Pegognaga vive una comunità indiana piuttosto numerosa - circa 350 persone -, senza contare che nel territorio tutto attorno, dal basso mantovano, al reggiano e modenese, gli indiani, sia hindu che sikh, sono veramente tanti. Si occupano soprattutto dell'allevamento bovino e qualcuno di loro ha già perfettamente imparato l'arte di produrre un ottimo Parmigiano Reggiano (o Grana padano, a seconda della zona).
Qualche tempo fa dunque la comunità indiana locale si è costituita in associazione, la Shri Hari Om Mandir, proprio per organizzare la costruzione di un tempio e per raccogliere i fondi necessari a tutte le fasi della costruzione.


L'amministrazione comunale ha accordato la vendita di un'area di 4000 m2 in zona artigianale Polesine per 240 mila euro; l'associazione ha ottenuto un mutuo di 800 mila euro, e altrettanti circa serviranno per completare i lavori. Ogni famiglia indiana di Pegognaga e dintorni, comprese le famiglie sikh, presenti alla cerimonia di inaugurazione, hanno partecipato alla colletta secondo le proprie possibilità. La struttura potrà accogliere 600 persone in una sala centrale di circa 700 m2. Ma l'intero complesso templare coprirà una superficie doppia, comprese le zone di servizio, l'abitazione del custode, la mensa, le zone per le abluzioni e i magazzini. Insomma, una struttura imponente!
Anche il console indiano Sanjay Kumar Verma, con un lungo discorso rivolto ai presenti (indiani e qualche curioso, oltre all'amministrazione al completo, compreso il parroco), ha lodato l'impresa, e auspicato il rispetto e la collaborazione tra le comunità.

Fin qui niente di particolare, salvo forse il fatto che di notizie del genere se ne sentono poche; normalmente siamo abituati a leggere articoli sui giornali in cui le amministrazioni vietano assembramenti sospetti o fastidiosi in luoghi di culto dubbi, spostano moschee in zone di periferia, accolgono petizioni e raccolte di firme dei cittadini che non vogliono far pregare i muezzin alle cinque di mattina nel proprio quartiere.

Franco Sommi, titolare dell'azienda di costruzione
Invece, la mia curiosità e interesse vanno tutti al fatto straordinario, secondo me, che a progettare e costruire questo nuovo tempio hindu nel bel mezzo della campagna mantovana siano un architetto e un costruttore padanissimi.
Avevo contattato il costruttore Franco Sommi, un signore gentile quanto imponente, già qualche tempo prima, per farmi raccontare le ragioni di questo 'matrimonio misto'. In effetti Sommi non è nuovo ad imprese simili ed evidentemente ormai abituato a mediare tra culture, lingue e richieste. Mi ha raccontato un po' tutto il percorso di questo tempio, il cui cantiere è partito proprio ieri, 11 aprile, e dovrebbe concludersi tra un anno circa.
Ma un incontro inaspettato e davvero felice è stato quello con l'architetto Giovanni Galafassi, che ha progettato l'intero complesso dovendo trovare un compromesso tra le norme igienico sanitarie e di sicurezza e il complicato corpus di regole che i canoni di architettura indiani impongono per la costruzione di un tempio.

acquerello dell'arch. Giovanni Galafassi
Ecco dunque che l'orientamento del tempio rispetterà l'asse est-ovest, con i santuari delle divinità (il tempio sarà dedicato a tutte le divinità) sul lato ovest, mentre l'entrata sarà sormontata da una copertura in stile nagara (stile architettonico dell'India settentrionale) alta 11 metri.
Mi racconta Galafassi degli studi appassionati sui testi di Alain Daniélou, cercando di orientarsi in questo vasto ed affascinante mondo incontrato in modo così insolito.
L'architetto mi ha inviato poi, molto gentilmente, alcuni acquerelli della facciata del tempio, che pubblico qui con un ringraziamento.

acquerello dell'arch. Giovanni Galafassi

domenica 3 aprile 2011

Cosa fanno i Warli?

Questa settimana sono stata, come ogni anno ormai da un po' di tempo, alla Fiera di Bologna dedicata alla letteratura per l'infanzia. Direi che è riduttivo dire che i libri per ragazzi servono solo a loro; sono spesso libri che vengono scritti e illustrati da autori di notevole talento, e che sono in grado di coinvolgere anche il pubblico adulto.
Sono giornate - quelle passate in Fiera - fatte di sorprese e meraviglia di fronte a pubblicazioni curatissime, con una grande attenzione per la grafica e per la qualità delle storie. Case editrici come Orecchio Acerbo, Adelphi, Corraini, Topi Pittori, per citarne solo alcune, sono aziende fatte da persone che lavorano da anni nel campo dell'editoria di qualità, producendo libri davvero straordinari.

Ma uno dei motivi per cui vado così volentieri alla Fiera è la possibilità di visitare gli stand delle poche case editrici indiane che propongono i loro libri al pubblico internazionale. La mia preferita è Tara Books, fondata da Gita Wolf nel 1994 con base a Chennai, che sta pubblicando libri fantastici, che hanno vinto numerosi premi proprio per la qualità e per l'impegno nel conservare e promuovere la cultura e l'arte tradizionale indiana.
L'anno scorso per esempio si è aggiudicato il premio New Horizons il libro Do! (tr. Cosa fanno i Warli?), un albo illustrato creato da tre artisti appartenenti alla comunità tribale Warli del Maharashtra.


Per tradizione, sono le donne della comunità a dipingere i muri esterni delle case: con pennelli di bambù tracciano, con una mistura bianca di calce e gesso, i loro motivi sul fondo di fango e sterco, lisciato alla perfezione. Da un po' di tempo però anche gli uomini hanno iniziato a dipingere, non solo sui muri, ma anche su stoffa e altri supporti.


I temi sono ripresi dalla quotidianità e dalle storie tradizionali, rese con immediatezza e semplicità da figurine stilizzate che si muovono con agilità sulla superficie.
Cerchi, triangoli, ricami per rendere i motivi vegetali, tutti in perenne movimento in mille attività, con in più il fascino dei pittogrammi dell'arte rupestre degli albori della civiltà.
I libri pubblicati da Tara Books sono molto spesso stampati a mano (tutti!) con la tecnica della serigrafia. Questo significa un lavoro lunghissimo di preparazione dei telai e dei supporti, una cura speciale durante i processi di stampa, ma un risultato decisamente straordinario!


Cosa fanno i Warli? di Gita Wolf, Ramesh Hengadi & Shantaram Dhadpe (assistiti da Rasika Hengadi e Kusum Dhadpe), ed. L'Ippocampo Junior, 2010
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