sabato 17 gennaio 2015

Robina Courtin: la prigione dell'egoismo e tanto altro

 Lo scorso fine settimana sono stata a Pomaia, in provincia di Pisa, all'Istituto Lama Tzong Khapa, per un seminario sul buddhismo. Docente: Robina Courtin. Non era la prima volta che incontravo questa maestra eccezionale (nel 2013 vi ho parlato degli insegnamenti ascoltati in Francia), ma ogni volta ne esco scossa, galvanizzata e piena di entusiasmo.
Il suo modo di insegnare - pieno di humor e qualche volta anche "shoccante" è davvero una sferzata di energia positiva. D'altra parte Robina è una maestra non comune, con un percorso di vita non comune...

Il Buddhismo ci fornisce una ipotesi di lavoro

Se Einstein in persona venisse da voi - spiega Robina Courtin - e vi chiedesse di "credere" nella teoria della relatività, voi come reagireste? Sapremmo tutti benissimo che non c'è niente da "credere"; noi come Einstein dovremmo semplicemente prendere come ipotesi di lavoro una certa teoria e vedere se funziona. Non si tratta di una verità rivelata e neppure del frutto di una speculazione filosofica.
Per fare questo, Einstein ha dovuto lavorare sodo: ipotesi, raccolta di tutte le informazioni, analisi, osservazione, osservazione, osservazione.
E il buddhismo è uguale: prende come ipotesi di lavoro il funzionamento della mente e ne fa un'analisi perfetta, perché - non si stanca di ripetere Robina - that which exists can be cognized by the mind, (tutto) ciò che esiste può essere conosciuto dalla mente!

Una tazza è una tazza

Invece no - sostiene Robina: quando guardiamo una tazza, pensiamo immediatamente "questa è una tazza"; ma la verità è che la nostra coscienza visiva, che percepisce solo forma e colore, invia le informazioni alla mente, che trasforma quelle forme e quei colori in una "tazza". In una frazione di secondo la nostra mente recupera tutti i dati: forma, colore, ricordi, storie, esperienze di questa vita e di quelle precedenti e applica una bella etichetta. Una tazza.
Il fatto è che, a causa della nostra ignoranza o "delusion" (in inglese il termine pare che funzioni meglio) fondamentale, crediamo alle etichette che produciamo. Il lavoro del buddhismo è quello di smontare, strato dopo strato, con precisione infinita, tutto il lavoro automatico fatto dalla nostra mente attraverso eoni di rinascite. Vi pare poco?
Naturalmente nel caso della tazza il lavoro è relativamente semplice; ma provate a pensare a quanto può essere complesso smontare il nostro modo di pensare, di "giudicare" il mondo che ci circonda e le nostre relazioni.

Attaccamento al sé

Questo nostro modo di etichettare, che nei tempi preistorici ci ha salvato dall'estinzione (pensiamo a quanto sia stato utile riconoscere i pericoli e metterci in salvo), oggi ci mette invece in difficoltà. Robina Courtin lo chiama "ego grasping", attaccamento al sé. E' l'assunzione fondamentale di un sé separato, indipendente e reale - l'intera psicologia occidentale si fonda sul fatto che il sé esista in questo modo - che fa di tutto per ottenere ciò che desidera.
E come desidera questo sé? In sostanza, secondo la psicologia buddhista, la nostra mente (che si crede separata e indipendente) non fa che applicare tre categorie di giudizio a tutto ciò che sperimenta: un giudizio positivo (mi piace), un giudizio negativo (non mi piace) e un giudizio neutro (mi è indifferente). Ovvero crede - ingannandosi - che ciò che stà là, fuori, attorno, possa essere giudicato in questi tre modi... e fa di tutto per farlo!


Afflizioni mentali (delusions)

Pensate a quando abbiamo molta fame e vediamo una torta al cioccolato. La nostra mente, tenuto conto delle informazioni inviate della coscienza visiva (forme e colori), somma le informazioni che possiede già: ricordi, esperienze, ecc., e si dice: "una magnifica torta al cioccolato!". E ci viene l'acquolina in bocca, tutto il nostro essere è assorbito dal desiderio di mangiarne … la mente ha applicato l'etichetta "mi piace" e desidera una fetta di quella torta deliziosa.
Ne mangiamo una fetta intera, poi ne prendiamo ancora, ma a metà della seconda fetta comincia a venirci la nausea. La mente dice: basta, non mi piace più; se qualcuno ci obbligasse a mangiarne ancora, forse vomiteremmo (!). Se per caso invece fossimo allergici al cioccolato o se non avessimo mai mangiato una torta, vedendone una rimarremmo completamente indifferenti. Ma la torta è sempre quella: quello che cambia è il modo in cui la nostra mente la interpreta.
Così succede per ogni cosa che sperimentiamo nella vita: l'ego - che si crede self existent - è il regista del nostro film e decide come scrivere il copione. L'ignoranza dell'ego determina l'attaccamento o l'avversione che viviamo, in un continuo su e giù dei nostri stati emotivi.
E per di più, molto spesso pensiamo che tutta questa sofferenza sia "normale", che non se ne possa fare a meno.

You are the boss!

Ma la buona notizia - dice Robina - che è contenuta nella terza Nobile Verità del sentiero buddhista (quella del superamento della sofferenza), è che si può fare a meno di soffrire. Che è possibile non diventare dei "tossicodipendenti" della sofferenza - quello stato in cui non possiamo più fare a meno di soffrire e siamo invischiati negli alti e bassi della mente che si comporta come uno yo yo (the yo-yo mind - definizione di Lama Yeshe, maestro di Robina Courtin).
E siccome anche Buddha - che era un tipo normale, dice la monaca - ci è riuscito, allora lo possiamo fare tutti. Noi siamo il boss! E possiamo essere il nostro stesso terapeuta (be your own therapist!).
Quindi, coraggio, perché non è mai tardi per seminare semi positivi.

nb: non ho potuto fare a meno di utilizzare le parole chiave - in inglese - che usa Robina. Sono potenti!

domenica 4 gennaio 2015

Holy Cow: il collezionista di razze bovine

Se Mother India ha potuto partorire una paladina per la difesa della biodiversità delle specie vegetali come Vandana Shiva o un "Gandhi dell'agricoltura non violenta", non si è però fatta mancare un altro figlio impegnato nella stessa direzione.
Solo che in questo caso siamo di fronte ad un maestro di scuola in pensione - Chandran Master - che si preoccupa del mondo animale.
E che si è inventato una specie di Arca di Noé degli animali da cortile, in particolare le mucche, che significano così tanto nella cultura indiana.

Chandran Master  "colleziona" razze bovine autoctone da 25 anni.
Le raccoglie nella sua fattoria in Kerala, piena zeppa anche di altri animali - galline, capre, pesci negli stagni della proprietà - per conservare, per quanto si può, la memoria delle razze tipiche allevate da sempre nelle campagne indiane, oggi ormai quasi del tutto soppiantate dalle razze ibride importate, che producono più latte, almeno nel breve periodo.

In un paese in cui più del 70% della popolazione vive nei circa 600 mila villaggi rurali, l'economia locale non può prescindere dall'allevamento. Un allevamento che tiene in grande considerazione i bovini, utili per produrre il latte e i derivati, e per lavorare la terra. Si sa che fin dall'antichità la vacca in questa cultura rappresenta quanto di più prezioso e straordinario la natura abbia potuto generare. Fornisce i 5 prodotti cardine dell'economia contadina: latte, burro, ghee, sterco e urina, ma rappresenta anche simbolicamente la casta brahmanica, che la utilizza nel culto.
La vacca sacra (Kamadhenu) è simbolo di abbondanza e persino i poeti, come Premchand, hanno cantato il momento del ritorno a casa, al tramonto, delle vacche dal pascolo, in quell'ora magica fatta di luce ambrata e polvere sospesa che ha preso il nome di "godhuli".
Bisogna pensare inoltre che in un paese in larga parte vegetariano, il latte rappresenta un nutriente fondamentale nella dieta quotidiana. Circa il 60% delle proteine animali provengono infatti dal latte e dai derivati.

L'India però, al pari dell'occidente in corsa verso lo sviluppo, sta velocemente perdendo la propria biodiversità, sia in fatto di varietà vegetali, che animali. Tant'è che Chandran Master, come un ribelle fuorilegge, ha dovuto raccogliere le razze bovine indiane in estinzione mettendosi apertamente contro lo stato del Kerala che ne vietava l'allevamento e la riproduzione a partire da una legge del 1961.
Comunque.
In questo bel video di The Source Project, Chandran Master ci porta nella sue fattoria a vedere quello che ha realizzato. Un'oasi verde dove diverse specie autoctone di mucche quasi estinte altrove, pascolano indisturbate. Il suo assistente e amico d'infanzia, Thomas, lo aiuta nella routine quotidiana. Una mucca Vechur del Kerala - la mucca più piccola del mondo secondo il Guinness dei primati, dato che misura solo 82 cm di altezza, se ne va a cercare qualcosa di buono da brucare, magari qualche foglia di papaya o di banano. Non ha bisogno di nulla di più e il giorno dopo restituirà circa 2 litri di latte dalle proprietà medicinali - sostiene il maestro Chandran, dato che ha potuto cibarsi di molte varietà vegetali utili e ricche di nutrienti.

Oltre a questa mucca, tante altre (circa 17 specie), che però non rappresentano neppure lontanamente le 111 varietà di vacca autoctona che vivevano in India fino a qualche decennio fa. Il punto è che ora gli allevatori, anche le fattorie più piccole, vengono spinti ad acquistare razze ibride importate perché producono molto più latte. Hanno però bisogno di molto più foraggio, molta più acqua e di cure antibiotiche - ricorda il maestro Chandran, sicché nel breve periodo può sembrare un affare, ma alla lunga le varietà di importazione non sarebbero così convenienti. E certo, non lo sarebbero per la conservazione della biodiversità. E poi, le razze ibride non producono latte più di 4 volte nel corso della loro vita, mentre le indigene lo fanno almeno 10 volte.
Insomma, come sempre si ritorna al problema della poca lungimiranza delle scelte economiche e politiche in favore del profitto. Un profitto che riempie le tasche di chi tiene le redini dell'economia globale agroalimentare, che come sempre non ha volto o lo nasconde dietro un marchio.


The Keralan cowboy from the source project on Vimeo.
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