Uno dei capitoli più interessanti e dibattuti, durante le giornate di insegnamento di Robina Courtin all'
Istituto Vajrayogini in Francia, è stato il tema dell'amore.
Secondo la visione buddhista - e secondo la nostra formidabile insegnante - non è quasi mai possibile (o molto raro) che si verifichino casi di amore in cui non ci sia attaccamento. Tra partner, ma anche l'amore materno verso i figli, questo sentimento è molto spesso un misto di emozioni diverse, in cui il senso di insoddisfazione dovuto all'attaccamento la fa da padrone.
Neanche farlo apposta, è appena stato pubblicato un articolo della stessa monaca su un periodico inglese, Soul and Spirit.
Provo a tradurvelo…
Si può amare senza attaccamento?
[…]
Prima di tutto, molto spesso si parte dal presupposto che amore e attaccamento siano la stessa cosa. Ma, secondo il sistema di pensiero buddhista di interpretare le nostre emozioni, l'attaccamento è la parte più insoddisfatta, nevrotica e bisognosa che cerca costantemente un "qualcuno", pensando che questo qualcuno faccia la felicità.
Ma l'amore, d'altro canto, fa riferimento anche alla nostra parte più altruistica, alla connessione con gli altri, alla speranza che gli altri siano felici e soddisfatti. Certo che nell'amore è presente sia il primo che il secondo aspetto, ma spesso è difficile distinguerli.
Sono come il latte e l'acqua mescolati insieme.
Se siamo felici in una relazione, è grazie all'amore. Se invece c'è rabbia, offesa o gelosia, è perché c'è attaccamento. Ma spesso è così difficile rendersene conto.
"Attaccamento" è una parola relativamente semplice, ma ha molte implicazioni: fondamentalmente si manifesta in un sentimento di bisogno profondo, dentro di noi. E' la convinzione che in qualche modo "io non sono abbastanza". Non ho abbastanza, e nonostante tutte le cose che posso fare o avere, comunque non è mai abbastanza.
E siccome siamo così convinti che sia vero, ci mettiamo a cercare spasmodicamente qualcuno che ci faccia sentire meglio. E quando troviamo quel qualcuno che innesca in noi delle sensazioni positive, ci attacchiamo a lui/lei, convinti che sia proprio questo lui/lei che ci renderà veramente felici. E poi pensiamo che questo qualcuno ci appartenga, che sia una sorta di estensione di noi stessi.
Questo attaccamento è la radice di tutte le altre emozioni negative e dolorose che proveremo in seguito.
Siccome l'attaccamento si sforza di ottenere ciò che vuole, nell'istante in cui non ci riesce - quando lui/lei non chiama, o torna a casa tardi, o si volta a guardare qualcuno - immediatamente sorgono ansia, rabbia e gelosia (oppure si abbassa l'autostima), in base ai nostri modi abituali di reagire all'insoddisfazione.
In genere la rabbia è la tipica reazione all'attaccamento non soddisfatto.
Tutti questi meccanismi sono così profondamente radicati in noi; noi crediamo così ciecamente alle storie che ci raccontiamo, che non le mettiamo quasi mai in discussione. Ma dovremmo.
E l'unico modo possibile per farlo è conoscere la nostra mente e i nostri sentimenti: in altre parole, dovremmo imparare a diventare i nostri stessi psicoterapisti.
Il fatto è che l'attaccamento, la rabbia, la gelosia e qualsiasi altra emozione dolorosa non sono un 'dovere'. Sono solo vecchie abitudini che si possono cambiare.
Il primo passo è comprendere che, conoscendo meglio la nostra mente, possiamo imparare a distinguere le diverse emozioni che sorgono e gradualmente possiamo imparare a cambiarle. La prima scommessa è che ci rendiamo veramente conto come tutto ciò sia possibile.
Il passo successivo è di allontanarci dal brusio continuo della nostra mente. Un modo semplice per farlo - è così semplice che diventa quasi noioso! - è sederci per pochi minuti ogni mattina e concentrarci su qualcosa. Per esempio, sul respiro.
Niente di speciale, niente trucchi, niente cose mistiche! E' una tecnica molto concreta. Con determinazione si può decidere di concentrarsi sul respiro - la sensazione che dà inspirare ed espirare attraverso le narici.
Nel momento in cui la mente se ne va, riportare l'attenzione sul respiro.
L'obbiettivo non è eliminare del tutto i pensieri, ma fare in modo che non ci condizionino: lasciare che sorgano, per poi allontanarli.
Il risultato a lungo termine di questa tecnica è una mente perfettamente a fuoco. Richiede tempo, certo, ma nell'immediato, la nostra capacità di fare un passo indietro dalle storie che ci raccontiamo, produrrà una certa obiettività. Lentamente, riusciremo a sbrogliare la matassa, a smontare le storie e alla fine riusciremo a cambiare i nostri pensieri. Pare che il segno della nostra nuova capacità di comprendere, sia che pensiamo di non aver concluso nulla, di star peggiorando! Ma non è così! Semplicemente, siamo in grado di ascoltare le nostre storie più chiaramente, ed è proprio così che possiamo cambiarle.
L'articolo è pubblicato on line sul sito di
Robina Courtin.
Le immagini che vedete sono state scattate nel
monastero di Nalanda, a 10 km dall'Itituto Vajrayogini, dove ho seguito il seminario di Robina Courtin. E' un monastero di tradizione tibetana Geluk con una ventina di monaci residenti, quasi tutti occidentali. I monaci qui seguono i corsi di formazione, che durano diversi anni. La costruzione del fabbricato nuovo che vedete risale a pochi anni fa.