Tra i diversi progetti che ho avuto la fortuna di realizzare in relazione alla mia grande passione per la cultura indiana (passione che mi accompagna da tempo e che mi ha fatto sceglie il Sanscrito come materia per la tesi di laurea), ci sono alcuni documentari sulla cultura, l’arte, l’attualità indiana. Lo scorso inverno io e mio padre – che è documentarista – e mia madre siamo partiti per il Rajasthan con il proposito di realizzare un reportage sul Barefoot College di Tilonia, una singolare e ormai largamente riconosciuta e apprezzata esperienza di risoluzione dei problemi legati alla povertà delle campagne indiane.
Il Barefoot College nasce nel 1972 ad opera di un piccolo gruppo di giovani laureati indiani che decisero di dedicare il loro tempo e le loro energie all’aiuto concreto della popolazione delle aree rurali indiane, allora come oggi estremamente povera e lontana dal progresso delle grandi città.
Bunker Roy, proveniente da una famiglia dell’alta borghesia bengalese, decise di lasciare tutto, casa e carriera già assicurata, per lavorare con l’aiuto della moglie Aruna nelle campagne del Rajasthan, dove il Social Work and Research Center (così si chiamava allora) aveva ottenuto in affitto gli stabili dimessi di un vecchio sanatorio per malati di tubercolosi (nella foto).
Bunker Roy e i pochi altri suoi compagni di avventura vi si trasferirono e cominciarono a costruire il tessuto delle relazioni con la popolazione locale che gli avrebbe permesso di capire meglio le esigenze di quei luoghi.
I primi interventi interessarono la salute, l’acqua potabile e il lavoro, tre settori strettamente collegati tra loro, che il SWRC affrontò cercando di trovare delle soluzioni semplici e gestibili autonomamente da parte degli interessati.
Uno dei problemi più pressanti, per esempio, era l’istallazione e la gestione delle pompe per l’acqua che nei villaggi indiani sono indispensabili, dato che rappresentano l’unico modo di procurarsi acqua per gli usi domestici e per gli animali da cortile.
Il Barefoot College si chiese dunque come fare per risolvere la situazione e mise in atto un sistema risolutivo che rendeva autonomo il villaggio.
Il College si offriva di mettere a disposizione le sue competenze per istallare delle nuove pompe, a condizione che fosse la comunità di villaggio a pagarle (se le famiglie comprano una pompa in società, poi ciascuna di esse farà di tutto perché la pompa funzioni e venga usata correttamente, perché la sente propria) e che la stessa comunità pagasse poi uno stipendio ad un ‘meccanico a piedi scalzi’ istruito dal College a garantirne il buon funzionamento.
Inoltre, il College poneva come condizione che la pompa per l’acqua non venisse istallata al centro del villaggio, ma in posizione in cui anche la comunità dalit potesse attingere acqua senza problemi.
Questa parte fu – ed è ancora – la più difficile, mi racconta Vasuji, uno dei fondatori del Barefoot College assieme a Bunker Roy, ma alla fine il College riuscì a risolvere la maggior parte dei problemi legati all'acqua in moltissimi villaggi indiani. Accanto alle nuove pompe per l’acqua il College propose di reintrodurre la raccolta sistematica dell’acqua piovana, incanalandola dai tetti per mezzo di grondaie. Un sistema antichissimo ma ormai dimenticato.
Be', questa è solo una delle tante storie che racconto nel documentario, e uno dei mille aspetti interessanti che l’approccio Barefoot ha proposto con successo.
Il sistema formulato da Bunker Roy è stato esportato tra l’altro in molti paesi del mondo, soprattutto in Africa, dove sta dando risultati importanti.
Inoltre verrà proiettato anche, in versione ridotta, al Festival della Scienza di Genova, domenica 31 ottobre, prima dell’intervento di Bunker Roy (ancora non so l’orario).
Siete tutti invitati!