sabato 16 novembre 2013

L'amore secondo il Buddhismo


Uno dei capitoli più interessanti e dibattuti, durante le giornate di insegnamento di Robina Courtin all'Istituto Vajrayogini in Francia, è stato il tema dell'amore.
Secondo la visione buddhista - e secondo la nostra formidabile insegnante - non è quasi mai possibile (o molto raro) che si verifichino casi di amore in cui non ci sia attaccamento. Tra partner, ma anche l'amore materno verso i figli, questo sentimento è molto spesso un misto di emozioni diverse, in cui il senso di insoddisfazione dovuto all'attaccamento la fa da padrone.
Neanche farlo apposta, è appena stato pubblicato un articolo della stessa monaca su un periodico inglese, Soul and Spirit.
Provo a tradurvelo…

Si può amare senza attaccamento?
[…]
Prima di tutto, molto spesso si parte dal presupposto che amore e attaccamento siano la stessa cosa. Ma, secondo il sistema di pensiero buddhista di interpretare le nostre emozioni, l'attaccamento è la parte più insoddisfatta, nevrotica e bisognosa che cerca costantemente un "qualcuno", pensando che questo qualcuno faccia la felicità.
Ma l'amore, d'altro canto, fa riferimento anche alla nostra parte più altruistica, alla connessione con gli altri, alla speranza che gli altri siano felici e soddisfatti. Certo che nell'amore è presente sia il primo che il secondo aspetto, ma spesso è difficile distinguerli.
Sono come il latte e l'acqua mescolati insieme.
Se siamo felici in una relazione, è grazie all'amore. Se invece c'è rabbia, offesa o gelosia, è perché c'è attaccamento. Ma spesso è così difficile rendersene conto.
"Attaccamento" è una parola relativamente semplice, ma ha molte implicazioni: fondamentalmente si manifesta in un sentimento di bisogno profondo, dentro di noi. E' la convinzione che in qualche modo "io non sono abbastanza". Non ho abbastanza, e nonostante tutte le cose che posso fare o avere, comunque non è mai abbastanza.
E siccome siamo così convinti che sia vero, ci mettiamo a cercare spasmodicamente qualcuno che ci faccia sentire meglio. E quando troviamo quel qualcuno che innesca in noi delle sensazioni positive, ci attacchiamo a lui/lei, convinti che sia proprio questo lui/lei che ci renderà veramente felici. E poi pensiamo che questo qualcuno ci appartenga, che sia una sorta di estensione di noi stessi.

Questo attaccamento è la radice di tutte le altre emozioni negative e dolorose che proveremo in seguito.
Siccome l'attaccamento si sforza di ottenere ciò che vuole, nell'istante in cui non ci riesce - quando lui/lei non chiama, o torna a casa tardi, o si volta a guardare qualcuno - immediatamente sorgono ansia, rabbia e gelosia (oppure si abbassa l'autostima), in base ai nostri modi abituali di reagire all'insoddisfazione.
In genere la rabbia è la tipica reazione all'attaccamento non soddisfatto.
Tutti questi meccanismi sono così profondamente radicati in noi; noi crediamo così ciecamente alle storie che ci raccontiamo, che non le mettiamo quasi mai in discussione. Ma dovremmo.

E l'unico modo possibile per farlo è conoscere la nostra mente e i nostri sentimenti: in altre parole, dovremmo imparare a diventare i nostri stessi psicoterapisti.
Il fatto è che l'attaccamento, la rabbia, la gelosia e qualsiasi altra emozione dolorosa non sono un 'dovere'. Sono solo vecchie abitudini che si possono cambiare.
Il primo passo è comprendere che, conoscendo meglio la nostra mente, possiamo imparare a distinguere le diverse emozioni che sorgono e gradualmente possiamo imparare a cambiarle. La prima scommessa è che ci rendiamo veramente conto come tutto ciò sia possibile.
Il passo successivo è di allontanarci dal brusio continuo della nostra mente. Un modo semplice per farlo - è così semplice che diventa quasi noioso! - è sederci per pochi minuti ogni mattina e concentrarci su qualcosa. Per esempio, sul respiro.
Niente di speciale, niente trucchi, niente cose mistiche! E' una tecnica molto concreta. Con determinazione si può decidere di concentrarsi sul respiro - la sensazione che dà inspirare ed espirare attraverso le narici.
Nel momento in cui la mente se ne va, riportare l'attenzione sul respiro.
L'obbiettivo non è eliminare del tutto i pensieri, ma fare in modo che non ci condizionino: lasciare che sorgano, per poi allontanarli.
Il risultato a lungo termine di questa tecnica è una mente perfettamente a fuoco. Richiede tempo, certo, ma nell'immediato, la nostra capacità di fare un passo indietro dalle storie che ci raccontiamo, produrrà una certa obiettività.  Lentamente, riusciremo a sbrogliare la matassa, a smontare le storie e alla fine riusciremo a cambiare i nostri pensieri. Pare che il segno della nostra nuova capacità di comprendere, sia che pensiamo di non aver concluso nulla, di star peggiorando! Ma non è così! Semplicemente, siamo in grado di ascoltare le nostre storie più chiaramente, ed è proprio così che possiamo cambiarle.

L'articolo è pubblicato on line sul sito di Robina Courtin.
Le immagini che vedete sono state scattate nel monastero di Nalanda, a 10 km dall'Itituto Vajrayogini, dove ho seguito il seminario di Robina Courtin. E' un monastero di tradizione tibetana Geluk con una ventina di monaci residenti, quasi tutti occidentali. I monaci qui seguono i corsi di formazione, che durano diversi anni. La costruzione del fabbricato nuovo che vedete risale a pochi anni fa.




6 commenti:

Unknown ha detto...

Hahahaaa... ecco la tua risposta sul commento che ho fatto prima nell'altro post. :-D Ma ancora... non sono totalmente d'accordo! ;-) L'attaccamento non dev'essere una cosa negativa in se. Per es. quando qualcuno mi promette qualcosa, e io dico "conto su di te", mi attacco in un certo senso a quella persona. E se lui alla fine non mantiene la promessa, certo, mi sentirò male. Però è inevitabile. Altrimenti non possiamo neanche avere fiducia, e cosa sarebbe una relazione senza quella? L'amore non è soltanto dare ma anche ricevere e questo in un equilibrio perfetto (dovrebb'essere così comunque). In quel senso l'attaccamento può anche essere una cosa buona... una persona mi fa felice, mi da il sentimento che potrei volare, sento un fuoco nel mio petto che mi rende indistruttibile. Perché non si può attaccare a quella persona allora? Posso soltanto accettare il dono della felicità momentanea senza desiderare di più nel futuro? Non rende anche la relazione momentanea? Un'attimo di felicità nel nostro cammino solitario? Se definisci l'attaccamento come fiducia, come l'ho fatto prima, io mi fido del fatto che l'altra persona mi darà questa felicità anche nel futuro. Perciò ho una base per sentirmi felice per tutto questo futuro e il cammino non diventa più così solitario.

Unknown ha detto...

Potrei aggiungere una definizione dell'attaccamento magari ancora più forte: la speranza, l'unica buona cosa nascosta nella scatola di Pandora. "Io spero che ci rivediamo presto perché stare con te mi da una grande felicità." Cosa siamo senza la speranza? Quale arma più potente esiste per combattere il nostro dolore?

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Unknown ha detto...

Credo che la fiducia non abbia nulla a che fare con l'attaccamento. Esso ha origine dall'ego, dalla credenza di non bastare a se stessi. Quando si parla di fiducia nell'altra persona , io intendo la constatazione razionale che quell'essere umano sia affidabile, che, al di là di tutto, cercherà di non ferirmi. Quando invece c'è attaccamento si perde in razionalità e il rapporto con l'altra persona si trasforma in "inconsce pretese", alla ricerca di un illusoria sicurezza che ci rende insoddisfatti.

Elisa Chiodarelli ha detto...

ciao Filippo, grazie di aver lasciato un tuo pensiero. Anche io penso che la fiducia sia una forma di amore, e perciò non condizionata.
Mentre appena pretendiamo "qualcosa in cambio", c'è attaccamento - e questo ci porta a soffrire (e a far soffrire).
E' un lavoro infinito, quello di comprendere i nostri pensieri, parole e azioni (e le intenzioni che li muovono), ma forse è il lavoro più bello che c'è!

Anonimo ha detto...

Lo condivido del tutto, bravo, Peter!
Noemi

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