Kala Rakhsa, questo il suo nome. è stata fondata nel 1993 da un'americana che all'epoca si trovava in Kutch per approfondire i suoi studi sulla storia dell'artigianato locale, particolarmente ricco, oltre che di splendidi manufatti tessili, anche di oggetti in terracotta, in metallo, in legno scolpito.
Judy Frater |
Fu in questo modo che Judyben (il suffisso 'ben' - sorella - si aggiunge sempre alla fine dei nomi femminili, per indicare famigliarità e rispetto) entrò a far parte della comunità locale; conobbe la madre di Prakash-bhai (bhai - fratello) e molte altre donne che continuavano a ricamare, tessere e cucire per le necessità famigliari.
Prakash Bhanani - socio fondatore |
Kala Raksha, così come altre fondazioni che si trovano in Kutch (per esempio Shrujan, fondata da Chandaben Shroff), cerca di proteggere la tradizione artigianale locale e garantire un reddito minimo alle donne che aderiscono al progetto.
In questo modo si salvano le storie e le culture di questo lembo di India, culture che sono le donne a tramandare, attraverso la tessitura e il ricamo; si salvaguarda l'identità di piccole comunità marginali, altrimenti fagocitate troppo velocemente dalla globalizzazione; si dà la possibilità proprio alle donne di migliorare e rafforzare la propria posizione in famiglia e nella comunità locale.
Kala Raksha - e anche le altre organizzazioni - offre poi l'opportunità ai giovani di studiare nella propria scuola per approfondire la conoscenza dell'arte tessile, dando la possibilità anche di svilupparla in un'ottica di vendita sul mercato indiano e internazionale; offre infine dei servizi fondamentali come l'assistenza sanitaria, legale e la possibilità di accedere al micro-credito.
Un momento particolarmente importante - mi racconta Judyben - fu quando, dopo il terribile terremoto che devastò il Kutch nel 2001, le donne riuscirono a reagire positivamente trovando soluzioni originali. Proprio grazie al ricamo.
Judy infatti suggerì loro di raccontare la propria esperienza del sisma, ma di farlo con ago e filo.
Ne risultarono una serie di magnifici lavori realizzati con la tecnica dell'appliqué (pezzetti di stoffa cuciti su una base di fondo, con forme e colori contrastanti), in cui le donne raccontavano delle loro case crollate, gli animali fuggiti, le difficoltà quotidiane.
Venne organizzata una mostra che riscosse un grande successo e da allora questa tecnica viene utilizzata abitualmente per creare pannelli figurativi da vendere nel negozio della fondazione.
Quelli che vi propongo qui rappresentano due storie di critica sociale, realizzate con garbo e molto humor.
Nel primo si è voluto rappresentare la storia di un gatto che uccide 100 topi. La signora che lo ha cucito spiega che il gatto è mussulmano, infatti ha una fascia verde legata attorno alla testa. Sta andando alla moschea per chiedere perdono... ha appena ucciso 100 topi, e si pente amaramente!
Nella seconda storia invece - realizzata da Meghiben, una delle donne che sono andate persino negli Stati Uniti a raccontare la propria esperienza - si è voluto rappresentare una situazione tipica: le figure stese a letto sono persone che hanno 'mangiato' a sufficienza e nulla di più.
Meghiben sostiene che se noi 'mangiamo' troppo (ovvero consumiamo più del dovuto, più di quello che possiamo permetterci) diventiamo troppo alti e usciamo dalla lunghezza del nostro letto con i piedi. Dunque: bisogna consumare il giusto, altrimenti ne subiremo le conseguenze. Saggio, no?
7 commenti:
Belli questi tessuti, le donne che li hanno creati e le loro storie.
Il gatto che va alla moschea potrebbe funzionare anche come gatto cattolico che va in chiesa a confessarsi. :-)
E poi bellissima la storia di chi mangia troppo e poi non entra più nel proprio letto.
Anche se probabilmente non c'entra niente (e poi non sono neanche fatti in tessuto), mi hanno ricordato i "patua painting" bengalesi, i dipinti che i cantastorie srotolano come illustrazioni per raccontare e cantare le loro storie.
A presto!
ciao Silvia, si è vero, infatti questi arazzi cuciti dalle donne sono narrativi come quelli che usavano (e usano ancora!) i cantastorie.
In effetti c'è una lunga tradizione di opere tessili che illustrano miti e racconti tradizionali.
La differenza qui è che le donne raccontano le loro proprie storie, e li firmano anche (si vede bene in quello di Meghiben).
E' un modo -dice Judy- per uscire dall'anonimato della produzione artigianale ed entrare nel sistema di produzione artistica (alla maniera occidentale, aggiungo io).
bacioni!
Geniale, con la grazia e la gioia dei colori che contraddistingue l'India.
Dovresti fare una mostra con le tue foto. Magari ci potremmo affiancare un pomeriggio in cui si parla di quello che i gialli indiani insegnano di questo paese. Me ne hanno regalato uno che, dalla prefazione, promette bene: sta dalla parte dei contadini sfruttati... Bye&besos
ciao cara Nela! e chi l'ha scritto questo giallo che ho visto nella foto che pubblichi nel tuo blog? sono un po' cieca, non ho indovinato l'autore dalla copertina... :-)
Si! che bello, dovremmo davvero trovare un modo per incontrarci tutte/i!
Festival dei blogger-India-addicted!!
seguirà buffet con chai indiano...
bacioni!
Il Festival dei blogger-India-addicted mi ispira molto, potremmo incontrarci e parlarne. Quanto al libro fotografato, ne parlerò presto nel blog. Bye&besos
inebriante...
be', inebriante non saprei, ma è senz'altro un mondo che non immagineresti e un'intelligenza -quella delle donne- molto acuta e creativa.
grazie sqwerez!
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