martedì 28 giugno 2011

Dinosauri/2

Il motivo per cui ho cercato di rintracciare notizie su questo gruppo sociale in particolare - i Rabari del Kutch -  è legato all'interesse particolare per la tradizione artigianale tessile, che desideravo documentare da vicino.
In effetti molte delle comunità di frontiera di queste terre conservano le tradizioni in fatto di abbigliamento che contraddistingue le varie famiglie, jati e gruppi allargati. Ciò è valido per i Rabari (e i vari sotto-gruppi: Kachi, Debriya e Vaghadiya), così come per tutti gli altri gruppi: Suf, Paako, Kharek, Garasia Jat, Mutva, Harijan.


Gli abiti dei Rabari sono davvero interessanti, sia quelli maschili che quelli femminili.
Gli uomini vestono tradizionalmente di bianco, con un dhoti di tela di cotone e una giacca pieghettata. Portano però anche un turbante bianco e pesanti orecchini semi-conici fissati nella parte centrale dell'orecchio. Le donne indossano abitualmente una gonna nera di lana, un corpetto nero di cotone aperto sulla schiena e arricchito da applicazioni e pieghettature. Il tutto è completato da un velo nero ricamato e da pesanti gioielli d'oro o d'argento ai polsi, caviglie, orecchie, collo. Altro elemento di bellezza sono i tatuaggi, che rappresentano, stilizzati, templi, altari, divinità, ma anche lo scorpione, simbolo di fertilità (le cui punture vengono così scongiurate). La lana per la gonna è quella delle capre e dei cammelli allevati in famiglia.

giacca da uomo Rabari. Collezione Kala Raksha
 Il vestito rappresenta quindi l'identità castale di questa gente e le donne curano con grande attenzione ogni dettaglio, consapevoli che l'abito segnala l'appartenenza alla comunità e la posizione di ciascuna al suo interno.
Fortunatamente il lavoro lungo e paziente di ricamo di abiti e stoffe tradizionali non è del tutto sparito; le donne hanno conservato questa particolare competenza tramandata di madre in figlia relativa a tecniche e motivi decorativi con i loro significati e usi specifici.
Il merito è anche alle diverse fondazioni e organizzazioni che sostengono l'artigianato locale, promuovendone il commercio in India e all'estero. Se le donne Rabari oggi continuano a ricamare e ad insegnare l'arte del ricamo alle loro figlie è anche perchè hanno trovato un mercato interessato al loro artigianato tessile, che per forza di cose, ha dovuto adattarsi un po' ai gusti e alle richieste esterne.
Il modo di ricamare Rabari è del tutto particolare: dopo un po' che si mettono a confronto le diverse tecniche, si impara a riconoscerlo a colpo d'occhio. E' costituito da disegni geometrici o figure stilizzate ricamate in un minutissimo punto filza (tipo imbastitura molto fine). Abiti, coperte, quilt e arazzi sono decorati anche con applicazioni di stoffa, specchietti e perline. Il corredo tradizionale comprendeva anche ogni sorta di 'copertura decorativa' per la casa: copri-tavolini, copri-recipienti di acqua e granaglie, copri-animali del cortile (tra cui dei curiosi copricapi per mucche e cammelli). Tutto ciò un tempo veniva ricamato per la dote della giovane sposa e rinchiuso in pesanti bauli di legno traforato pronti per il trasloco nella nuova casa da sposata.
La stessa cura che le donne prestavano per la confezione dei capi tessili e di abbigliamento veniva - e in parte è ancora - riservata per la decorazione della casa.
Sia gli interni che la veranda esterna delle case tradizionali (quelle di forma circolare si chiamano vandh) sono abbellite da rilievi con applicazioni di specchi, figure di animali e geometriche fatte di un misto di sterco animale e argilla. Il tutto colorato di bianco all'interno e di colori brillanti all'esterno.



domenica 12 giugno 2011

Dinosauri/1

Uno degli incontri più straordinari fatto durante l'ultimo viaggio in India è senz'altro quello con la comunità Rabari, un popolo che vive oggi ai margini sociali di questo Gujarat rampante e in vertiginosa ascesa economica, grazie alle scelte dei suoi governanti.
I Rabari sono uno dei tanti gruppi tribali che abitano i confini tra l'India e il Pakistan, in piccoli villaggi ai margini del deserto salato, oggi in parte ricostruiti dopo il terribile terremoto del 2001 che devastò tutta la zona meridionale dello stato.
I villaggi sono davvero poveri e sperduti, sorgono nel mezzo di una vasta zona pianeggiante - con poche rocciose eccezioni - in cui il sole batte furioso tutto l'anno, ad esclusione del momento in cui le piogge monsoniche sommergono per parecchi centimetri la terra e il sale, trasformando il Kutch in un lago surreale.
Fino al 1800 tutta questa zona era il percorso abituale delle carovane che trasportavano merci da e per i porti della costa; poi, quell'epoca felice giunse al tramonto e il Kutch entrò in una progressiva emarginazione. A occidente, il grande centro commerciale e finanziario di Bombay monopolizzava i traffici in maniera crescente, a oriente il nuovo porto di Karachi cominciava a far sentire il suo peso.
Nel 1947 la partition tra India e Pakistan impresse una drammatica accelerazione al declino che fino ad allora aveva lentamente divorato le energie commerciali della zona. Il Kutch si ritrovò ad essere terra di confine tra due stati ostili e divenne nel 1965 teatro del conflitto indo-pakistano.



In questo contesto difficile, le popolazioni tribali del deserto sono sopravvissute ai vari stravolgimenti, cercando di mantenere la propria identità di gruppo con le proprie tradizioni, la lingua, gli usi, la religiosità, i metodi di sussistenza. Questi gruppi, le jati, si sono distribuite su tutto il territorio del Kutch, ma anche nel Saurashtra, nel Gujarat settentrionale, in Rajasthan e nel Sind pakistano.
Viaggiando per il Gujarat, capita di incontrare degli appartenenti alle varie jati Rabari: si riconoscono subito dall'abbigliamento del tutto particolare delle donne (gonna, camicetta e scialle neri) e degli uomini (camicia pieghettata bianca, pantaloni e turbante bianco).

La loro origine mitica affonda nelle radici del tempo; pare che i progenitori dei Rabari fossero una coppia formata da una fanciulla, figlia del primo guardiano di cammelli (creato da Shiva e Parvati, non senza una serie di incredibili peripezie e colpi di scena), e un principe Rajput. Questo stabilì la parentela e il legame tra Rabari e Rajput, legame mitico che giustifica poi la dipendenza di questi due gruppi sociali nella realtà storica, legati da affari commerciali e allevamento (e approvvigionamento) di bestiame.
I Rabari infatti sono soprattutto allevatori, di capre, pecore, cammelli e vacche; e i loro sistemi di allevamento prevedono ancora - chissà per quanto - la transumanza dal villaggio alle zone di pascolo, sempre più rare e preziose (e lontane).
La migrazione inizia a novembre e si conclude alla vigilia del monsone. I restanti quattro o cinque mesi vengono trascorsi al villaggio. Nel sistema castale tradizionale ciascuna jati era dedita all'allevamento di una sola specie animale: certune le vacche, certe altre i bufali, altre ancora le capre e i cammelli. Questo determina una gerarchia: chi alleva le vacche e i cammelli occupa una posizione di maggior prestigio sociale, anche se con l'espandersi della rete di trasporti su ferrovia e su strada, il ruolo del cammello nei traffici commerciali è drasticamente cambiato.
Per tutte le comunità Rabari del Kutch comunque il cammello mantiene una grande importanza simbolica e religiosa e ogni famiglia cerca di tenerne uno per fini cerimoniali e come testimonianza del proprio status.
E ovviamente, dalla vendita degli animali e dal commercio dei loro prodotti (latte, derivati e lana), i Rabari ricavano il necessario per vivere.
Oggi comunque i Rabari si sono parzialmente sedentarizzati e sempre più integrano la pastorizia con la coltivazione dei campi.
Ciononostante, viaggiando per il Gujarat, capita, nel bel mezzo di un tratto autostradale trafficato, di imbattersi in una famiglia Rabari che si sposta, con i propri averi caricati sui cammelli, per raggiungere un bivacco, un pascolo o un accampamento di transumanza. E' un incontro strano, come se ci si imbattesse in un esemplare di essere vivente venuto dal passato più remoto.

domenica 5 giugno 2011

Stringi e Tingi (home made)

La settimana scorsa sono stata a fare un giretto in provincia di Piacenza, a Sarmato per la precisione, dove si svolgeva nel castello cittadino una mostra mercato di artigianato. Ci sono andata per incontrare una artista-artigiana dei tessuti: Nanette Libiszewski.
Nanette è una signora molto affascinante - capelli grigio perla in una treccia fino a metà schiena e sguardo turchese - che deve amare moltissimo i colori e le trame, dato che ne ha fatto il suo lavoro da anni. Di origini svizzere, e perfettamente trilingue, si trasferisce con il marito fotografo sulle colline piacentine, in una vecchia cascina contadina ristrutturata circondata da mandorli e alberi di amarene.
I locali di servizio si trasformano in laboratorio, dove Nanette sperimenta le tecniche di tintura della stoffa - cotone, seta e lana - con il sistema del tie and dye (potete leggere un articolo interessante su di lei anche su Marie Claire Maison, qui).



In particolare utilizza il sistema di legatura giapponese, (shibori), che prevede una grande varietà di legature in modi diversi: la stoffa può essere pizzicata e legata a formare piccoli fiocchi, oppure si possono stringere con il filo delle linee di legatura parallele in senso verticale, orizzontale o obliquo per tutta la lunghezza della stoffa, ma anche avvolgere piccoli oggetti dentro alla stoffa, in modo che lascino la loro impronta dopo la tintura. Infatti, come per la tecnica del tie and dye indiano, il colore in cui la stoffa viene immersa non passerà nell'area di tessuto legata stretta, lasciando un alone più o meno sfumato del colore sottostante.
Ne risultano fantasie geometriche surreali, che a pensarci bene somigliano molto a pellicce di animali, nervature di foglie macroscopiche, costellazioni, cortecce, ricami vegetali, cristalli di neve, che scandiscono trama e ordito.
La stoffa viene poi tagliata e trasformata dalle mani di Nanette in camice, scialli, gonne, borse, le cui superfici indaco, verde bosco o rosso amaranto sono tutte un susseguirsi di arricciature di colore, goffrature, increspature, dal fascino ipnotico, come di antichi mantra trasformati in stoffa.
Sarei rimasta a chiacchierare tutto il pomeriggio, delle tante esperienze di Nanette, delle varie fasi del suo percorso artistico, di quando insegnava ai ragazzi le tecniche di artigianato tessile, il periodo del design di tessuti, il momento in cui si è dedicata ai gioielli di perle di vetro di Murano. E gli incontri della sua vita, molto interessanti e stimolanti, i viaggi, i progetti.
Viene proprio voglia di approfondire questo mondo così intrigante del saper fare, trasformando la stoffa in storie immaginate.
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