martedì 30 agosto 2011

2 dicembre 1984

Doveva essere un giorno fausto, adatto per celebrare matrimoni, adatto per cantare le lodi di dio, adatto per declamare poesie nel buio stellato della notte, adatto per fare festa.
Infatti a Bhopal la notte del 2 dicembre 1984 le famiglie hindu e quelle mussulmane stavano preparandosi per fare festa e per celebrare in un corale inno alla vita, la felicità di condividere quella notte speciale.
Poi qualcosa andò storto e la città piombò in un incubo che ancora oggi non è finito.

Era da un po' che volevo leggere di più sulla tragedia di Bhopal, in cui migliaia di persone persero la vita per la fuga di un gas altamente tossico, l'isocianato di metile, causato dall'incuria e lo stato di abbandono della fabbrica di pesticidi che stava (e ancora si trova) nel cuore della città.
La Union Carbide, colosso della chimica americana degli anni 60' e '70 fece costruire infatti proprio al centro della storica città di Bhopal, quello che allora veniva considerato un gioiello della tecnologia industriale, la 'bella fabbrica', nella quale tutti, dagli operai agli ingegneri chimici, erano orgogliosi di lavorare.

Lo scorso inverno ho avuto modo di leggere Animal di Indra Sinha, che ho trovato straordinariamente bello e coinvolgente, con il suo storpio protagonista (Animal, appunto), creatura deforme e vivacissima, figlio di quella notte di terrore.
Ieri sera invece, ho finito Mezzanotte e cinque a Bhopal, di Dominique Lapierre e Javier Moro, romanzo-inchiesta frutto di un lungo lavoro di interviste ai protagonisti di quel disastro.

La prima parte del libro è tutto un costruire lo scenario - sociale e politico - di ciò che accadde quella notte di dicembre; gli autori ci parlano degli slum che circondano la 'spianata nera', dove sorse la fabbrica della Union Carbide, in cui vivevano migliaia di immigrati dalle campagne, in particolare dallo stato dell'Orissa, con i loro problemi di sussistenza e la grande capacità di reagire alle tante difficoltà della vita. Gli autori tessono - filo dopo filo - l'arazzo umano delle baraccopoli che circondano la fabbrica: Oriya Basti, Chola Basti e Jay Prakash Basti.
La famiglia del contadino Ratna Nadar, con la moglie e la figlia Padmini; l'ex lebbroso Ganga Ram e la moglie Dalima, Belram Mukkadam, che aveva assegnato alla famiglia di Ratna la baracca nello slum, il ciabattino Mohammed Iqbal, il sarto Ahmed Bassi e suor Felicity (sarà a lei che Indra Sinha si è ispirato per il suo personaggio di Ma Franci, la suora francese?), venuta anni prima dalla scozia per lavorare nei quartieri poveri di Bhopal, privi di tutto.
Sull'altro versante invece, i protagonisti della progettazione e della costruzione della fabbrica, primo fra tutti Eduardo Munoz, agronomo di origini argentine che era riuscito a vendere il Sevin, potente pesticida prodotto dalla Union Carbide, in molti paesi latino americani. Munoz, animato dalla convinzione che il Sevin avrebbe fatto la fortuna dei contadini indiani tormentati da continue invasioni di parassiti (e anche quella della sua azienda), partì per Bhopal per realizzare l'impresa della sua vita. In questo fu supportato da alcuni ingegneri indiani e tecnici specializzati, che poi ritroviamo coinvolti nel disastro del '84.

Leggiamo dunque del giorno di maggio del 1980, 'quando tra l'euforia di tutto il personale, i reattori chimici della nuovissima fabbrica iniziarono a produrre i primi litri d'isocianato di metile e immetterli in tre immense vasche in grado di accogliere abbastanza Mic da avvelenare mezza città'. Gli artefici di questa inaugurazione, a tutti i livelli, dagli ingegneri indiani formati negli Stati Uniti, all'ultimo coolie impiegato nella fabbrica, erano orgogliosissimi di appartenere alla multinazionale universalmente nota e di portare, stampata sulla tuta, la losanga blu e bianca della società.
Incredibilmente, la sicurezza degli impianti e il rispetto dei valori morali dei suoi impiegati erano per la Union Carbide altrettanto importanti della crescita del suo valore in borsa. Questo almeno era quello che Warren Anderson, il presidente, ripeteva continuamente.
Eppure, nel momento in cui ci si rese conto che, contrariamente alle aspettative, il Sevin non si vendeva granchè sul mercato indiano, la monumentale fabbrica di Bhopal, incastonata come un diamante nel centro pulsante della città, venne progressivamente lasciata decadere.
Non conveniva più sostituire i pezzi rotti, riparare le falle, seguire alla lettera le norme di sicurezza; parte del personale venne licenziato e la parola d'ordine era: risparmiare.
I dirigenti che avevano seguito la costruzione della fabbrica e che la conoscevano come una figlia, vennero sostituiti.
Se qualche volta un po' di odore di erba tagliata - l'odore emesso dal fosgene - o di cavolo lesso, tipico dell'isocianato di metile, si spandeva attorno, nessuno ci faceva caso. I poveri che abitavano nelle baracche intorno non potevano sapere il motivo per cui le loro vacche morivano improvvisamente dopo aver bevuto dalle pozze di acqua e i nuovi dirigenti preferivano partecipare ad una partita di cricket piuttosto che leggere i rapporti diligentemente compilati da tre ingegneri americani inviati per controllare lo stato degli impianti.
Tutto ciò non poteva che portare ad un disastro, che in molti avevano previsto.
Nella notte del 2 dicembre, 'il guscio di cemento della vasca 610 si spaccò liberando l'enorme serbatoio d'acciaio che schizzava come un razzo fuori dal sarcofago'. Si liberano nell'aria diversi gas letali che invadono una vasta area della città a nord della fabbrica, causando migliaia di morti e provocando intossicazioni invalidanti e problemi fisici di varia natura, anche su coloro che non morirono quella notte.

Qualcuno l'ha definita la Hiroshima indiana, e leggendo questo libro, sembra proprio così. E come per Hiroshima, le conseguenze di quel disastro industriale continuano, dopo tanti anni, a creare enormi problemi.



Qui sopra, una campagna promossa da Bhopal Medical Appeal  e TheYes Men

mercoledì 10 agosto 2011

Storie di Stoffa/2

Vi auguro una buona estate; la mia scorre ancora tra ufficio, traffico e spesa, ma tra pochi giorni anche io me ne vado un po' (poco) in vacanza.
Come ogni anno risparmio giorni di ferie per il Viaggio invernale...

E per festeggiare, vi invito a guardare questo corto sulla tecnica del block print, uno dei miei pallini fissi!


a presto :-))

martedì 2 agosto 2011

Born into brothels - un film


Puja, Avijit, Suchitra, Shanti, Manik, Tapasi, Gaur e Kochi sono gli otto piccoli protagonisti di questo documentario.
Realizzato nel 2004 dalla fotografa inglese Zana Briski e da Ross Kaufmann, questo film racconta la storia degli otto bambini, figli di prostitute del quartiere a luci rosse Sonagachi a Calcutta. Partita nel 1994 per fotografare la vita delle prostitute di questa città, Zana Briski racconta di essersi a poco a poco affezionata ai loro figli, che mostravano un particolare interesse per il suo lavoro, chiedendole continuamente di poter provare a fare fotografie. "Così - racconta la fotografa - ad un certo punto cominciai a pensare che sarebbe stato bello insegnare ai bambini a fotografare, perchè potessero mostrare il mondo con i loro occhi".

Ai bambini vennero date delle semplici macchine fotografiche e dei rullini, ma contemporaneamente Zana propose loro di seguire un corso, in cui si spiegavano il funzionamento, il sistema per inquadrare e scattare, le regole della composizione, e infine si selezionavano i provini di ciascun bambino, analizzando insieme i motivi per cui una foto era ben riuscita o un'altra doveva essere scartata.
Parallelamente, il film racconta la vita di ciascuno di loro, attraverso i vari momenti della giornata, nel labirinto dei vicoli sporchi e decadenti di questo quartiere di periferia. La vivacissima Puja, di famiglia brahmana, il cui destino è segnato, dato che tutte le donne di famiglia - dalla bisnonna alla madre - fanno le prostitute; Avijit, figlio brillante e talentuoso di un venditore di alcoolici illegali alcolizzato e tossicodipendente. Suchitra, che la zia vorrebbe spedire nei bordelli di Bombay, Kochi, la cui madre ha tentato il suicidio dopo aver perso sei figli.
Insomma, tutti i bambini, per un motivo o per l'altro, conducono una vita dura, lavorano o badano ai fratelli più piccoli, non frequentano la scuola, e vivono in un ambiente difficile e degradato.
Zana Briski dà loro la possibilità di raccontare con la fotografia il loro mondo, di aprire le porte ad esperienze nuove, accompagnandoli in nuove avventure come lo zoo o il mare (che nessuno di loro aveva visto prima); ma soprattutto propone loro di cercare una scuola che li accetti, per studiare e costruirsi un futuro diverso.

Buona parte del film è dedicato al racconto della ricerca faticosissima di una scuola disposta ad accettare i figli delle prostitute della città: Zana si trova di fronte ad un muro di sospetto e rifiuto, in cui è costretta comunque a riempire moduli, rispondere a domande personali sulla vita dei ragazzi, fare interminabili file negli uffici pubblici, firmare, timbrare, fotocopiare, insistere.
Finalmente due scuole della città sono disponibili ad accettare le iscrizioni dei bimbi, che devono promettere di frequentare i collegi continuativamente e senza poter uscire se non in poche occasioni di vacanza. Allo stesso tempo la fotografa riesce a organizzare le prime mostre delle fotografie dei ragazzi, in America e in India. Uno di loro, Avijit, viene scelto per rappresentare il progetto ad una importante manifestazione in Olanda, e dopo molte peripezie riesce a partire per questo luogo così diverso e incredibile rispetto a casa sua.
Grazie ai fondi raccolti con le mostre e le donazioni si prospetta per i ragazzi la possibilità di proseguire negli studi, eventualmente anche in America...

Tutto è bene quel che finisce bene?

Nei contenuti speciali è possibile vedere le immagini del ricongiungimento, dopo tre anni, della fotografa con i ragazzi, ormai adolescenti. E' molto toccante vedere come ciascuno stia faticosamente trovando la propria strada; i ragazzi adesso parlano inglese senza problemi e si impegnano a scuola, pur con molte difficoltà.

la fotografa Zana Briski

Navigando nel sito del progetto di Zana Briski (che adesso coinvolge anche altri paesi nel mondo) si può seguire quello che ciascun ragazzo sta facendo adesso, se sta ancora studiando oppure se ha preferito abbandonare e seguire altre strade. Non è chiaro, veramente, se qualcuna delle ragazze ha dovuto invece piegarsi al destino delle donne di Sonagachi; in ogni modo nei confronti di questo film e di questo progetto sono state mosse molte critiche, a cominciare da quelle di uno dei collaboratori indiani alla produzione, che ha rinfacciato alla fotografa americana di non aver davvero inciso positivamente nelle vite dei ragazzi come potrebbe sembrare dal film che, a suo giudizio, è più una fiction che un documentario.

A me salta agli occhi l'impronta 'americana' dell'approccio: più volte Zana Briski nel film dice ai ragazzi che bisogna credere nei sogni e lavorare per raggiungerli. Su questo non ho nulla da obbiettare, ma non so se sia giusto per esempio lavorare solo sui ragazzi e non sulle famiglie o se proiettarli in un universo di mostre e feste per la raccolta di fondi sia il sistema giusto per affrontare il problema di essere nati in un quartiere come Sonagachi. Comunque, è senz'altro una grande opportunità, che questi otto bambini hanno avuto la fortuna di avere.

Born into brothels è comunque davvero un bel film, cui i bambini hanno contribuito enormemente facendo delle foto bellissime...
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