lunedì 30 agosto 2010

Una rivoluzione a Piedi Scalzi


Tra i diversi progetti che ho avuto la fortuna di realizzare in relazione alla mia grande passione per la cultura indiana (passione che mi accompagna da tempo e che mi ha fatto sceglie il Sanscrito come materia per la tesi di laurea), ci sono alcuni documentari sulla cultura, l’arte, l’attualità indiana. Lo scorso inverno io e mio padre – che è documentarista – e mia madre siamo partiti per il Rajasthan con il proposito di realizzare un reportage sul Barefoot College di Tilonia, una singolare e ormai largamente riconosciuta e apprezzata esperienza di risoluzione dei problemi legati alla povertà delle campagne indiane.


Il Barefoot College nasce nel 1972 ad opera di un piccolo gruppo di giovani laureati indiani che decisero di dedicare il loro tempo e le loro energie all’aiuto concreto della popolazione delle aree rurali indiane, allora come oggi estremamente povera e lontana dal progresso delle grandi città.
Bunker Roy, proveniente da una famiglia dell’alta borghesia bengalese, decise di lasciare tutto, casa e carriera già assicurata, per lavorare con l’aiuto della moglie Aruna nelle campagne del Rajasthan, dove il Social Work and Research Center (così si chiamava allora) aveva ottenuto in affitto gli stabili dimessi di un vecchio sanatorio per malati di tubercolosi (nella foto).
Bunker Roy e i pochi altri suoi compagni di avventura vi si trasferirono e cominciarono a costruire il tessuto delle relazioni con la popolazione locale che gli avrebbe permesso di capire meglio le esigenze di quei luoghi.
I primi interventi interessarono la salute, l’acqua potabile e il lavoro, tre settori strettamente collegati tra loro, che il SWRC affrontò cercando di trovare delle soluzioni semplici e gestibili autonomamente da parte degli interessati.
Uno dei problemi più pressanti, per esempio, era l’istallazione e la gestione delle pompe per l’acqua che nei villaggi indiani sono indispensabili, dato che rappresentano l’unico modo di procurarsi acqua per gli usi domestici e per gli animali da cortile.

Molto spesso queste pompe venivano istallate da ‘ingegneri statali venuti dalla città’ che perforavano fino alla falda ottenendo molto spesso solo acqua salmastra (l’acqua salata di falda è un problema del Rajasthan, anche se è uno stato lontano dal mare). Poi gli ingegneri se ne andavano, lasciando la struttura a sé stessa fino alla visita successiva, prevista in genere a distanza di un anno. Faccio senza dire che la pompa per l’acqua, istallata al centro del villaggio (e quindi inaccessibile ai fuoricasta), si rompeva presto o non funzionava a dovere, lasciando l’intero villaggio al problema di come potersi procurare l’acqua potabile. La gente a volte si ammalava a causa dell’uso di acqua contaminata, aggiungendo ulteriori difficoltà alla situazione già abbastanza compromessa.
Il Barefoot College si chiese dunque come fare per risolvere la situazione e mise in atto un sistema risolutivo che rendeva autonomo il villaggio.
Il College si offriva di mettere a disposizione le sue competenze per istallare delle nuove pompe, a condizione che fosse la comunità di villaggio a pagarle (se le famiglie comprano una pompa in società, poi ciascuna di esse farà di tutto perché la pompa funzioni e venga usata correttamente, perché la sente propria) e che la stessa comunità pagasse poi uno stipendio ad un ‘meccanico a piedi scalzi’ istruito dal College a garantirne il buon funzionamento.
Inoltre, il College poneva come condizione che la pompa per l’acqua non venisse istallata al centro del villaggio, ma in posizione in cui anche la comunità dalit potesse attingere acqua senza problemi.
Questa parte fu – ed è ancora – la più difficile, mi racconta Vasuji, uno dei fondatori del Barefoot College assieme a Bunker Roy, ma alla fine il College riuscì a risolvere la maggior parte dei problemi legati all'acqua in moltissimi villaggi indiani. Accanto alle nuove pompe per l’acqua il College propose di reintrodurre la raccolta sistematica dell’acqua piovana, incanalandola dai tetti per mezzo di grondaie. Un sistema antichissimo ma ormai dimenticato.
Be', questa è solo una delle tante storie che racconto nel documentario, e uno dei mille aspetti interessanti che l’approccio Barefoot ha proposto con successo.
Il sistema formulato da Bunker Roy è stato esportato tra l’altro in molti paesi del mondo, soprattutto in Africa, dove sta dando risultati importanti.

Il documentario verrà proiettato al Festival Internazionale Ferrara, sabato 2 ottobre prossimo, alle 18 alla sala Boldini, in centro a Ferrara. Si intitola Sulle orme di Gandhi, il Barefoot College di Bunker Roy.
Inoltre verrà proiettato anche, in versione ridotta, al Festival della Scienza di Genova, domenica 31 ottobre, prima dell’intervento di Bunker Roy (ancora non so l’orario).
Siete tutti invitati!

martedì 24 agosto 2010

C'era una volta


Molto tempo fa, quando l'India era ancora ricoperta da un fitto manto di foresta rigogliosa e in cielo si libravano grigi elefanti con le loro morbide ali, viveva in un reame del nord un Re potente e molto saggio.
ll Re aveva dodicimila figlie, tutte belle e virtuose, promesse fin dalla nascita a dodicimila principi valorosi.
Le figlie del Re crescevano circondate dall'amore dei genitori e dei sudditi del reame. Erano tutte intelligenti e devote, e il Re provvedeva alla loro istruzione e ai loro divertimenti.
Nei lunghi pomeriggi languidi e assolati le principesse erano solite giocare e cantare nel giardino profumato di frangipani che circondava la reggia, e verso sera, con la complicità del buio che risuonava dei canti degli usignoli notturni, andavano a bagnarsi nelle acque fresche del lago fuori città.
Una sera, mentre si apprestavano ad asciugarsi i capelli e a drappeggiarsi gli abiti attorno al corpo prima di rientrare, udirono un suono meraviglioso venire dal bosco di manghi lì vicino: era una dolce melodia, che scoprirono provenire dal flauto di un giovane uomo dalla pelle turchina, assorto nella sua musica.
Istantaneamente, tutte e dodicimila, si innamorarono perdutamente dell'affascinante sconosciuto e ogni volta che tornavano a fare il bagno nel lago aspettavano con impazienza di udire ancora le dolci note e di ammirare quel giovane così misterioso.
Ormai trascorrevano il giorno ansiose che arrivasse la sera ed avevano perso il gusto per i giochi e gli interessi consueti.
Il Re e la Regina cominciarono a preoccuparsi per quel comportamento insolito e a temere che stesse per accadere qualcosa di nefasto.
Le principesse intanto si recavano più frequentemente al tempio, per invocare con ardore la clemenza di Dio, affinché concedesse loro di poter stare per sempre con quel meraviglioso giovane pieno di fascino.
Si sa che la saggezza non può essere ereditata di padre in figlia, nemmeno quella di un potente Re, e infatti le principesse, sebbene sapessero di essere destinate a dei consorti di pari lignaggio fin dalla più tenera età, non smisero di desiderare e pregare, piangere e disperarsi per ottenere quel giovane così seducente.
“State attente, - disse la vecchia ayah, mentre pettinava loro i lunghi capelli neri come le ali dei corvi-, un giorno Dio potrebbe esaudire i vostri desideri, e farvi un dono che rimpiangerete”.
Un giorno Dio, stanco dei lamenti e dei sospiri delle dodicimila principesse, volse lo sguardo su di loro e sui loro desideri: in un lampo vide che le principesse erano già promesse ad altrettanti principi e che però non facevano altro che piangere per quel giovane dalla pelle azzurra che incantava le ragazze con il suono del suo flauto.
“Incaute! -tuonò-, Ingenue! Non permetterei mai che il volere del Re loro padre venisse ignorato, ma non posso sottovalutare tutte queste preghiere, tutta questa devozione per Me”.
Poi con un gesto ampio della mano, fece cadere su di loro un velo di nebbia. Il pulviscolo opalescente si posò su tutte e dodicimila, trasformandole in pietre, che Dio sparse per il bosco che circondava il lago.
In questo modo le principesse poterono ammirare per sempre il loro meraviglioso giovane musicista, anche se qualche volta, vinte dal sonno, chiudono gli occhi, e noi ignari pellegrini le calpestiamo mentre ci affrettiamo sui sentieri del mondo.

Le immagini sono state scattate a Junagadh, Gujarat, ai piedi della collina di Girnar, importante meta di pellegrinaggio Jain.

martedì 17 agosto 2010

il Mahabharata raccontato da una bambina

Samhita Arni cominciò a leggere il Mahabharata quando aveva quattro anni. Figlia di un funzionario statale sempre in viaggio con la famiglia, si divertiva a sfogliare i libri presi in prestito dalla biblioteca consolare per riempire le sue giornate altrimenti un po’ noiose.
Qualche anno dopo accettò il suggerimento della madre di riscrivere una delle due grandi epopee indiane.
Senza esitare Samhita optò per il Mahabharata, visto che il Ramayana se la prende a morte con Sita (la protagonista), un atteggiamento che non le andava a genio, e inoltre il primo le piaceva di più, “perché è così cattivo”. Samhita dunque iniziò la dettatura della sua personale versione del poema alla nonna, attingendo a fonti diverse, tutte citate nell'introduzione scritta dalla bambina stessa.


Ma Samhita volle anche aggiungere la sua personale visione dei personaggi protagonisti della storia: lei stessa ci racconta che nel corso della ricostruzione degli episodi, le capitava di mettersi a disegnare con la biro le scene ancor prima di descriverle alla nonna. Ciò che ne risulta è una serie di tavole illustrate con grande forza immaginativa che danno un carattere vivido e ben definito a ciascuno dei personaggi coinvolti.
La stessa bambina racconta che una delle fonti principali per la realizzazione dei disegni fu il Mahabharata di Peter Brook, versione teatrale (e poi filmica) del grande poema realizzata per le sale cinematografiche nel 1989 (ricordo che anche io e i miei compagni di università andammo a vedere il film in inglese, con sottotitoli in una lingua ugrofinnica mai ben precisata, in una sala cinematografica di Bologna, in due serate perché il film era troppo lungo!).


Comunque, Samhita compose una prima raccolta di episodi che vanno a formare il primo libro e, in un secondo tempo, una seconda raccolta per il secondo volume (beh, non dimentichiamo che il poema originale consiste di ben 110.000 versi).
Questa speciale versione del Mahabharata dunque costituisce una sorta di distillato dell’epopea, dove Samhita ha posto l’accento in particolare sulla descrizione dei personaggi, analizzati attraverso le loro azioni, mosse da emozioni profonde e non prive di contraddizioni e ambiguità.
Lei stessa ammette di preferire i 100 cugini Kaurava (i ‘cattivi’) ai Pandava, e tra i primi, il personaggio di Duryodhana, forse perché, come scrive Samhita: “il Mahabharata secondo me non è un libro che parla di ideali. La sua morale è che nessuno è perfetto, e che da ultimo nulla ha valore”.


Ciò che qui c’è lo si può trovare anche altrove, ma ciò che qui non si trova, non esiste in nessun luogo” Mhb, I, 56,33

Se volete, il Mahabharata raccontato da una bambina di Samhita Arni è edito da Adelphi, 2002, nella collana I cavoli a merenda.

venerdì 13 agosto 2010

Le dimore degli Dei


Riguardando le immagini dei diversi viaggi indiani, mi rendo conto di quanto sia affascinante osservare le mille forme di tempio indù fotografate in questi anni.

La visita all’interno del tempio è un atto di devozione e di conoscenza, e comincia con un gesto di umiltà: togliendosi le scarpe.

Mi è sempre piaciuto poi visitare questi luoghi con calma, magari sedendomi in un angolo e cercando di farmi invisibile, per catturare la vita che scorre attorno a me. Uomini, donne e bambini ruotano attorno al tempio e visitano il Garbhagriha, la Cella, per vedere il volto di Dio e rivolgergli una preghiera.

Ma mi piace anche percorrere le gallerie e i cortili per cercare di comprendere le forme architettoniche cariche di simboli.


Per esempio, chissà se l’architetto che progettò questa copertura a shikara (a tabernacolo) avesse in mente l’albero del giardino di casa sua, con la sua corteccia rugosa come la pelle di un elefante, coronata da una chioma di foglie verde scintillante…



La forma a tabernacolo della sovrastruttura dei templi dell’India del nord è proprio costruita ad immagine degli antichi altari formati da rami di bambù o fronde d’albero piantate nel terreno a formare un quadrato e riunite alla sommità.

L’idea suggerita è quella dell’ascensione: dal molteplice, rivolto ai 4 punti cardinali, all’Uno indistinto dell’apice. L’arco che si forma in questo modo sulla superficie della struttura è un arco naturale, che sormonta e racchiude la sede di Dio.

Nel corso dei secoli, questa idea di base si è articolata in una serie di soluzioni architettoniche diverse, secondo il luogo ed il periodo storico.

Ma non c’è un centimetro in un tempio indù in cui non sia espressa un’idea o rappresentato un simbolo.

E in cui la Natura, in tutta la sua ricchezza e molteplicità, non venga celebrata con grande eloquenza.

mercoledì 11 agosto 2010

Libri indiani per ragazzi



Avete fatto caso che sugli scaffali delle librerie, oltre ai sempre più numerosi autori indiani di romanzi per adulti, stanno arrivando (finalmente!) anche dei bei libri per ragazzi?

Per parte del mio tempo io lavoro proprio con una libreria per ragazzi (a Ferrara), e ho il privilegio di sfogliare tutte le novità in fatto di libri per bambini e ragazzi.

Qualche anno fa è uscito per Adelphi un bellissimo albo illustrato intitolato Il libro della giungla a Londra, di Bhajju Shyam.

Shyam, è un artista, -un pittore- Gond, ovvero proviene da una tribù Gond del Madhya Pradesh.

Invitato a Londra per decorare le pareti di un lussuoso ristorante indiano, fa un’esperienza indimenticabile di osservazione della vita di questa città, vista con gli occhi sbalorditi e vergini di chi non ha mai lasciato il villaggio e non parla neppure una parola di inglese.

Londra allora si trasforma in una giungla intricata, in cui Shyam cerca di sopravvivere, tentando di decifrare i segnali attorno a sé. Luoghi, oggetti e persone si trasformano in esseri viventi zoomorfi che popolano i murales della sua immaginazione traducendo in linguaggio iconografico Gond questo mondo estraneo ma entusiasmante.

I suoi resoconti di viaggio sono stati raccolti e trasformati in testo dagli editori di una casa editrice molto apprezzata -a ragione- per il suo lavoro di recupero delle tradizioni artistiche indiane e di cura nelle pubblicazioni, la Tara Books.

Alcuni altri libri di autori indiani per ragazzi sono stati tradotti e pubblicati da diverse case editrici italiane, che finalmente si sono accorte della qualità di alcune (è vero, non molte) pubblicazioni che vengono dall’India. Ma su questo argomento tornerò ancora…


"Qui ho disegnato il mio viaggio. Il treno non è stato per niente importante, quindi l'ho fatto piccolo. Nei pensieri dei Gond le cose più importanti hanno lo spazio più grande. [...]"


"Qui non c'è bisogno di tante spiegazioni. Ho trasformato l'autobus numero 30 in un cane perchè è stato un amico devoto [...]"


"Due innamorati si abbracciano in mezzo alla strada. Dato che gli inglesi si mettono addosso quello che gli pare e si trasformano in tutto quello che vogliono, li ho disegnati come creature curiose e molto colorate. [...]"

Tutti i testi da Il libro della giungla a Londra, Bhajju Shyam, Adelphi 2004, collana I cavoli a merenda

sabato 7 agosto 2010

Trame di pietra e trame di seta


Visitando il Gujarat non si può fare a meno di vedere, oltre alla collina sacra di Palitana e al tempio del sole di Modhera, anche le architetture dei pozzi e delle cisterne reali. A Patan si conserva per esempio il pozzo Rani ki Vav (il pozzo della Regina) risalente alla dinastia Solanki, dell’undicesimo secolo.

Si tratta di una profonda fenditura che scende per diversi metri, attraverso sette livelli.
Per arrivare al fondo della cisterna, gli architetti hanno progettato una serie di piani, alcuni dei quali coperti da padiglioni sostenuti da colonne, il tutto riccamente decorato di bassorilievi raffiguranti i protagonisti della mitologia indiana: le discese (avatara) di Vishnu, ninfe celesti, cavalieri, animali, fiori e motivi geometrici.
Di nuovo, come a Modhera, si ripropone la sensazione che il ritmo del tempo e della vita di uomini e divinità intarsiati nella pietra stesse a cuore a questi artisti, così come ai loro mecenati.
Le pareti del pozzo sono trasformate in una specie di arazzo intricato e meraviglioso in cui il mondo prende forma e ordine in modo da poter essere letto.


Ma la stessa ansia di spiegare il mondo su una superficie piana, la ritroviamo nella seta Patola che le ultime famiglie di tessitori producono ancora qui a Patan.


La famiglia Salvi per esempio si dedica da generazioni -il capofamiglia mi spiega che i suoi avi si trasferirono qui dal Maharastra centinaia di anni fa- alla produzione della seta Patola, con la tecnica del doppio ikat.
I fili di seta che comporranno trama e ordito vengono tinti preventivamente (ancora con colori vegetali) alla tessitura, in base ad un disegno già progettato.
Ciò significa che il tessitore dovrà tingere ciascun filo di diversi colori (sia nel senso della trama che in quello dell’ordito) aiutandosi con la tecnica della legatura. Una volta asciutti, i fili verranno composti sul telaio in base al disegno già pre-impostato durante la tintura: un lavoro di precisione infinita, che una volta terminato assomiglia incredibilmente ai bassorilievi dei pozzi della città.

L’argomento è davvero appassionante: ad Ahmedabad si può visitare il magnifico museo Calico, fondato dalla famiglia Sarabhai, proprietaria nel ‘900 di importanti fabbriche tessili del Gujarat.
Profondamente appassionati di arte -soprattutto dell’arte della tessitura- misero insieme una collezione dei più bei tessuti provenienti da tutta l’India, creati dall’ingegno paziente e visionario di artigiani anonimi ma straordinariamente abili.
Vedendo quello che sono stati in grado di fare -e che fanno ancora oggi- ci si rende conto di quanta passione e quanta arte richieda la produzione di tessuto; sull’onda dell’entusiasmo ho acquistato questo libro che spiega alcune delle mille tecniche di tessitura, ricamo, applicazione, traforo della stoffa. E mi sono resa conto di quanto poco si sappia in genere su questo argomento…

"Tante parole. Tante cose. In un telaio il nome di un cilindro cambia ogni due centimetri. Perché? Ogni chiodo ha un nome, ogni pezzo di corda, ogni occhiello, ogni cannuccia di bambù sul liccio. Un telaio è un dizionario, un glossario, un’enciclopedia. Perché? Le parole non vengono a proposito; non hanno nulla di meccanico. No, è perché il tessitore, facendo la tela, crea anche parole, e viola il territorio dei poeti, dà nomi alle cose che l’occhio non riesce a vedere. Ecco perché il telaio ha dato alla lingua più parole, più metafore, più modi di dire di tutti gli eserciti di scribacchini del mondo".
Da Il cerchio della ragione, Amitav Ghosh

domenica 1 agosto 2010

Il mio paese delle maree

In questi giorni ho finito di leggere Il paese delle maree di Amitav Ghosh. Ho letto quasi tutto di questo scrittore, che ho conosciuto personalmente in una sera di giugno di qualche anno fa a Roma. Presentava appunto questo romanzo, con una serata di musica e letture all’interno dei Fori, nella Basilica di Massenzio. Avevo la fortuna di essere nel gruppo di chi aveva organizzato l’iniziativa, e mi ricordo questa giornata come un’esperienza davvero speciale.

Il libro però l’ho letto solo adesso, e mi è piaciuto proprio tanto.

Un libro di avventura al sapore salmastro delle lagune delle Sunderbans, a sud di Calcutta.

Un libro di ricerca e di scoperta, dove la natura obbliga i protagonisti ad assecondare i suoi ritmi e a sintonizzare le proprie vite al suo respiro. Alta e bassa marea scandiscono le storie che si intrecciano come i reticoli di canali che formano il tessuto del territorio. Un libro dove si parlano tante lingue diverse, come spesso accade nei romanzi di Ghosh. Ma tante cose sono state già scritte -e molto bene- su questo libro; a me è piaciuto particolarmente per le atmosfere che sa evocare. Sarà che vengo da un luogo che assomiglia un po’ a queste zone basse e umide, dove gli uomini hanno dovuto adattarsi alle difficili condizioni del territorio. Il delta del Po è proprio così: di fango, di nebbia mattutina, di silenzi, di acqua verde. Navigare sul Po, sul piano dell’acqua, dà ancora la sensazione di essere nelle mani di qualcosa di più grande e potente, una corrente senza onde, che ti lascia remare nella direzione che hai in mente e poi magari decide di condurti altrove.

Puoi sbarcare su un’isola ricoperta da una vegetazione fitta e tagliente, che la piena successiva ridurrà in monconi grigi di melma e schiuma. E la piena -che ho visto tante volte- non so perché, ma come l’alta marea delle Sunderban, ha un fascino terribile che trasforma il paesaggio in uno specchio convesso sotto il quale la vita trattiene il respiro.

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