domenica 17 maggio 2015

Choose to smile: scegli la felicità e sarai felice!


A film by Mike Worsman.
Video from KarmaTube

Se qualcuno di voi fa un salto in libreria e prova a scorrere tra gli scaffali i titoli dei libri che parlano di "felicità", si troverà a dover scegliere tra un mucchio di proposte.

Libri più o meno scientifici, più o meno filosofici o libri con un approccio che tende verso la formula "tutto compreso, chiavi in mano" - come una sorta di ricetta magica per la felicità garantita.
Best seller scritti da belli e famosi, o biografie senza tempo che parlano con un linguaggio ormai superato di questioni che non lo saranno forse mai.
Psicologia, filosofia, religione e perfino scienza: tutte in fila per contribuire con il loro distillato a fare della nostra vita un giardino fiorito.

Ma cosa ne saprà il signor Sugathapala di tutto questo?
Forse tutto, forse nulla. Fatto sta che il suo modo di affrontare la vita, con un sorriso sulle labbra, mette di buon umore così, senza bisogno di leggere nulla.
E' contagioso!
Mr. W.V. Sugathapala Damameella Watta vive nello Sri Lanka, poco fuori Colombo. Di lavoro fa la guardia per una pasticceria - in oriente non è strano trovare queste figure a metà tra la guardia e il portinaio, davanti a certi locali.

Mr. Sugatahapala è marito e padre di tre ragazzi, ha cambiato diversi posti di lavoro e poi, dopo aver perso un posto a cui teneva molto, è finito per essere impiegato nella pasticceria che vedete nel video.
Lui stesso dice di essersi dispiaciuto del passaggio ad una occupazione meno remunerata, ma che dal primo giorno di lavoro in questo nuovo posto, si fosse sentito subito più felice.
Del resto - dice Sugathapala - siamo qua tutti quanti per uno stop-over, siamo di passaggio: non c'è ragione di prendere male la vita e perdersi nella rabbia, invidia e così via. E' controproducente!
Quindi è meglio sorridere, che fa anche bene: come una ginnastica di purificazione.
Lo potremmo prendere come un nostro dovere quotidiano?!
Guardatevi il video, e sorridete :-)

sabato 25 aprile 2015

Di viaggi e viaggiatori. Krishnamurti e l'amore.

panorama dalla cittadella di Chittor, Rajasthan

Oggi, riguardando le foto degli ultimi viaggi, mi sono venute in mente tante esperienze, tutte così intense e significative per me - per me che un viaggio in India vuol dire tornare "a casa" - che ho sentito un senso profondo di gratitudine.
La mia vita è stata fin qui meravigliosamente piena di cose importanti. E riguardare le foto le riporta a galla.

Ciò non significa che queste esperienze siano confinate solo ai momenti del viaggio; ma è proprio in viaggio, nella lontananza, che più si svela la ricchezza che ho potuto vivere e che continuo a sperimentare nelle esperienze di ogni giorno.
L'India mi segue anche dentro ai gesti quotidiani: andare al lavoro, fermarmi a osservare la gente che passeggia, preparare la cena, salutare qualcuno, leggere la pagina di un libro, sedermi a meditare.
Mi dico che questo è amore. E mi sento fortunata di poterne avere così tanto, così disponibile.

Allora vado a cercare cosa ha scritto sull'amore Jiddu Krishnamurti, che è stato un filosofo indiano del Novecento (morì nel 1986 a 90 anni) estremamente apprezzato e conosciuto in tutto il mondo per la sua visione originale e gli insegnamenti sull'approccio alla vita.
In un brano dei suoi taccuini (n.25) leggo la descrizione di un paesaggio di campagna al tramonto: Ciò che era bello era adesso di uno splendore radioso; ogni cosa ne era rivestita; c’era estasi e riso non solo interiormente, in profondità, ma in mezzo alle palme e ai campi di riso.
L’amore non è una cosa comune, ma era là, nella capanna illuminata da una vecchia lampada a olio; era con quella donna che portava qualcosa di pesante sulla testa; con quel ragazzo nudo che faceva ruotare su un cordone un pezzo di legno che mandava scintille, i suoi fuochi d’artificio.
L’amore era ovunque, così a portata di mano che potevi raccoglierlo sotto una foglia morta o in quel gelsomino vicino alla vecchia casa in rovina.  Ma tutti erano occupati, indaffarati e perduti (…).


E sull'onda di questa ultima riflessione, sul fatto che siamo sempre troppo occupati a "fare" qualcosa per notare quello che c'è (già) in abbondanza, leggo quest'altro contributo, tratto da "Libertà dal conosciuto" (1969):

L'amore è una idea? Se lo è può essere coltivata, nutrita, accarezzata, comandata a bacchetta, alterata come volete. Quando dite di amare Dio, cosa significa? Significa che amate una proiezione della vostra immagine, una proiezione di voi stessi sotto certe spoglie di rispettabilità secondo quello che credete sia nobile e santo; perciò dire, "Amo Dio", non ha assolutamente alcun senso. Quando adorate Dio, adorate voi stessi, e questo non e amore.
 

(…) Dunque come faremo a scoprire cos'è l'amore?
Limitandoci a definirlo? La chiesa lo ha definito in un modo, la società in un altro, e c'è una gran quantità di deviazioni e di interpretazioni sbagliate. Adorare qualcuno, dormirci insieme, lo scambio emotivo, l'amicizia: è questo quello che intendiamo per amore?
Questa è stata la norma, il modello, ed è diventata una cosa così estremamente personale, riferita ai sensi e limitata, che le religioni hanno dichiarato che l'amore è qualcosa di molto più grande. In quello che esse chiamano amore umano vedono piacere, competizione, gelosia, desiderio di possedere, di tenete stretto, di controllare e di interferire nel pensiero di un altro, e conoscendo la complessità di tutto ciò, affermano che deve esserci un altro tipo di amore, divino, bellissimo,
intatto, non corrotto (…).
 

L'amore può essere diviso in sacro e profano, umano e divino, o c'è solamente amore? L'amore appartiene a uno e non a molti? Se dico, "Ti amo", esclude forse ciò l'amore dell'altro? L'amore è personale o impersonale? Morale o immorale? È qualcosa di intimo o no? Se amate l'umanità potete amare il particolare? L'amore è un sentimento? È una emozione? È piacere e desiderio? Tutte queste domande indicano - non è vero? - che abbiamo delle idee sull'amore, idee su ciò che dovrebbe e non dovrebbe essere; un modello o un codice maturato nella cultura in cui viviamo.
Così per approfondire la questione di cosa sia l'amore dobbiamo come prima cosa liberarci dalle incrostazioni dei secoli, mettere da parte tutti gli ideali e le ideologie su ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere. Dividere qualsiasi cosa in quello che dovrebbe essere e in ciò che è, è il modo più ingannevole di vivere.
Dunque, come farò a scoprire cos'è questa fiamma che chiamiamo amore non per esprimerlo a qualcuno altro ma per sapere cosa esso sia in se stesso?
(…) Forse si può scoprire cosa sia l'amore partendo da quello che NON è.

Il governo dice: và e uccidi per amore del tuo paese. È amore questo? La religione dice: Dimentica il sesso per amore di Dio. È amore questo? L'amore è desiderio? Non dite di no.
Per la maggior parte di noi lo è, desiderio e piacere, il piacere che è derivato dai sensi, dalla attrazione sessuale e dalla soddisfazione. Non sono contrario al sesso, ma cercate di vedere cosa in esso sia implicato. Quello che il sesso vi dà momentaneamente è il totale abbandono di
voi stessi, poi finite per ritornare alla vostra confusione, e così volete ripetere e ripetere quello stato in cui non c'è preoccupazione, problema, io (…).

L'appartenere a un altro, l'essere psicologicamente nutrito da un altro, dipendere da un altro, in tutto ciò deve esserci sempre ansietà, paura, gelosia, colpa. E finché c'è paura non c'è amore; una mente oppressa dal dolore non saprà mai cos'è l'amore; il sentimentalismo e l'emotività non hanno assolutamente niente a che fare con l'amore. E così l'amore non ha niente a che fare col piacere e il desiderio.

L'amore non è un prodotto del pensiero che è il passato. Il pensiero non può assolutamente coltivare l'amore. L'amore non è limitato o intrappolato dalla gelosia poiché la gelosia appartiene al passato. L'amore è sempre attivo presente. Non è "amerò" oppure "ho amato". Se conoscete l'amore non seguirete nessuno, l'amore non obbedisce. Quando amate non c'è rispetto né irriverenza.
Non sapete cosa realmente vuol dire amare qualcuno amare senza odio, senza gelosia, senza rabbia, senza volere interferire con quello che l'altro fa o pensa, senza condannare, senza far paragoni, non sapete cosa vuol dire?
Dove c'è amore c'è paragone? Quando amate qualcuno con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutto il corpo, con tutto il vostro essere, c'è paragone? (…)

Quando perdete qualcuno che amate, piangete. Queste lacrime sono per voi stessi o per colui che è morto? piangete per voi o per un altro? (…)
Quando piangete per voi stessi, è amore? piangete perché siete soli, perché siete stati abbandonati, perché non avete più forza dolendovi del vostro destino, della vostra condizione, sempre voi, in lacrime? Se lo comprendete, cioè venite in contatto con esso altrettanto direttamente come se toccaste un albero, o un pilastro o una mano, allora vi renderete conto che il dolore è creato da noi stessi, il dolore è creato dal pensiero, il dolore è la conseguenza del tempo.

Se ci fate caso potete vedere che tutto ciò accade dentro di voi. Potete vederlo con pienezza, completamente, in uno sguardo, senza sprecare tempo a farci su delle analisi. Potete vedere in un momento l'intera struttura e natura di questa piccola cosa senza valore chiamata "io", le mie lacrime, la mia famiglia, la mia nazione, la mia fede, la mia religione tutte queste brutture sono dentro di voi. Quando ve ne renderete conto con il cuore, non con la mente, quando ve ne renderete conto dal più profondo del cuore, allora avrete la chiave che potrà mettere fine al dolore.

Il dolore e l'amore non possono procedere a fianco, ma nel mondo cristiano la sofferenza è stata idealizzata, posta su una croce e adorata, e ciò implica che voi non potrete mai sfuggire il dolore tranne che per quella particolare porta, ed è questa tutta la struttura di una società religiosa sfruttatrice.
Così quando chiedete cos'è l'amore, potreste essere troppo spaventati per vedere la risposta.
Essa potrebbe significare un cambiamento radicale; potrebbe frantumare la famiglia; potreste scoprire di non amare vostra moglie o vostro marito o i vostri bambini no? Potreste dover distruggere la casa che avete costruito, potreste non tornare più al tempio.

Ma se volete ancora scoprirlo, vedrete che la paura non è amore, che dipendere non è amore; la gelosia non è amore, la possessività e il desiderio di dominare non sono amore, la responsabilità e il dovere non sono amore, l'autocommiserazione non è amore, l'angoscia di non essere amato non è amore, amore non è l'opposto di odio più di quanto umiltà non sia l'opposto di vanità. Così se potete eliminare tutto ciò senza sforzo, lavando via come la pioggia lava la polvere che si è accumulata nei giorni su una foglia, allora forse giungerete a quello strano fiore che l'uomo sempre tanto brama.
(…)
E così siamo arrivati al punto: può la mente incontrare l'amore senza bisogno di disciplina, pensiero, sforzo, senza alcun libro, o maestro o guida; incontrarlo come si incontra un bel tramonto?
 

Mi sembra che una cosa sia assolutamente necessaria, e che questa sia la passione non causata da uno stimolo; la passione che non sia il risultato di un impegno o di una devozione, passione che non sia lussuria. Un uomo che non sa cosa sia la passione non conoscerà mai l'amore poiché l'amore può nascere solo quando ci sia un totale autoabbandono.
Una mente che ricerca non è una mente appassionata, e incontrare l'amore senza cercare è l'unico modo per trovarlo. Incontrarlo ignari e non come risultato di uno sforzo o di una esperienza. Questo amore, scoprirete, non appartiene al tempo; questo amore è sia personale che impersonale, appartiene sia ad uno che a molti. Come per un fiore profumato che voi potete odorare o trascurare. Quel fiore è lì per chiunque, anche per colui che si prende la pena di odorarlo profondamente e di guardarlo con piacere. Sia egli molto vicino nei giardino o molto lontano, per il fiore è la stessa cosa, essendo ricco di quel profumo lo distribuisce a tutti.

L'amore è qualcosa di nuovo, fresco, vivo. Non ha ieri né domani. È al di là della confusione del pensiero. Solo la mente innocente sa cosa sia l'amore, e la mente innocente può vivere nel mondo che innocente non è. È possibile scoprire questa cosa straordinaria che l'uomo ha cercato eternamente, nel sacrificio, nell'adorazione, nel rapporto, nel sesso, in ogni forma di piacere e di dolore, solamente quando il pensiero arriva a comprendere se stesso e giunge
naturalmente a fine. Allora l'amore non ha opposto, non ha conflitto.
 

(…) Ma non sapete come raggiungere questa straordinaria sorgente: cosa fate dunque? Se non sapete che fare, non fate niente, non è vero? Assolutamente niente. Allora intimamente voi siete nel più completo silenzio. Capite cosa vuol dire? Vuoi dire che non cercate, non volete, non andate a caccia di qualcosa; non c'è assolutamente un centro. Allora c'è amore.

... se non siete stanchi di sentire parlare di amore, potreste dare un'occhiata ad un altro post qui su Italian Masala, scritto qualche tempo fa. A proposito di amore dal punto di vista del buddhismo.

lunedì 9 marzo 2015

Come trasformare la sofferenza (secondo il buddhismo). Un testo di Matthieu Ricard

In questi giorni di quasi-primavera sto concentrando le mie energie nello studio di alcuni testi buddhisti estremamente interessanti.
Frequentando il centro Tara Cittamani di Padova (che fa parte della grande famiglia FPMT, fondata nel 1975 da Lama Thubten Yeshe e Lama Thubten Zopa Rinpoche), ho deciso di approfondire gli insegnamenti del Dharma. Di conseguenza ho la possibilità di leggere testi che rappresentano l'essenza del buddhismo, un concentrato di saggezza e compassione; il cuore di quello che (per me) rappresenta la capacità umana di andare oltre la propria condizione. Senza spostarsi di un passo.

Per la precisione, sto affrontando l'argomento "Lo Rig" - Menti e Cognitori - in cui si analizzano con una precisione millimetrica i nostri meccanismi mentali.
Oltre a questo, mi capita di leggere anche testi più "narrativi" - chiamiamoli così - che illustrano gli stessi concetti dal punto di vista delle moderne neuroscienze.
Tra le altre cose, vorrei condividere uno stralcio di un discorso tenuto da Matthieu Ricard (conosciuto anche come "l'uomo più felice del mondo", in link un suo intervento TED) sul tema del sistema di proiezione e rappresentazione tipico della nostra mente. Credo che in poche righe sia riuscito a raccontarci con semplicità buona parte di quello che dovremmo sempre tenere a mente.

"Vorrei spiegare un paio di cose su come vengono usate le immagini mentali nella pratica buddhista, dove sono uno strumento dello sforzo necessario alla trasformazione personale. Vi chiederete perché mai i buddhisti passino così tanto tempo a cercare di visualizzare delle immagini, ma tali sforzi vanno visti in una prospettiva più vasta: fanno parte dell'obiettivo più generale di conseguire una trasformazione del modo in cui percepiamo il mondo fenomenico, oltre che del modo in cui concepiamo la natura del percettore, dell'io, del soggetto.
Perché mai trasformare queste percezioni? Che c'è di sbagliato nel modo in cui di solito percepiamo il mondo?

Di solito, quando percepiamo il mondo, non possiamo fare a meno di assegnargli dei valori e dei giudizi; in qualche caso, naturalmente, questo ci aiuta a "funzionare" in questo mondo. Se sappiamo che una cosa è molto calda, faremo attenzione; se sappiamo che una cosa è pericolosa, ci terremo a distanza; ma il processo si solidifica rapidamente, e ben presto ecco che cominciamo ad assegnare o a imputare certe caratteristiche agli oggetti esterni ritenendo che siano intrinseche ad essi, mentre in realtà non lo sono.
Possiamo pensare che questo pavimento sia bello perché lo percepiamo tale, ma ecco che in breve tenderemo a credere che questo pavimento sia intrinsecamente bello, o intrinsecamente brutto. Crediamo che i suoni siano intrinsecamente piacevoli o spiacevoli, e ciò vale nel caso del tatto, del gusto e di tutte le nostre esperienze sensoriali. In realtà, esiste una dinamica profondamente interdipendente tra i fenomeni esterni e la nostra mente. Percepiamo le cose, assegnamo ad esse dei valori, e poi tentiamo di possederle o di evitarle fondandoci su tali giudizi; e in ultimo finiamo per credere che le caratteristiche che noi imputiamo agli oggetti siano invece delle loro proprietà inerenti. In tali modo, sperimentiamo una compulsione molto più forte ad attirarli o a respingerli.

Il problema è che le nostre esperienze di bramosia o di repulsione non corrispondono alla realtà. Le cose, in sé, non sono intrinsecamente belle o piacevoli. Una rosa può essere bella ai nostri occhi, ma la sua bellezza non significa molto per una balena o un pipistrello. Dal momento che la nostra percezione non risponde alla vera realtà, si finisce per avere un senso di frustrazione, di tormento, di conflitto interiore e sofferenza.
E questo vale anche per l'esperienza che il percettore (cioè l'individuo, ndr) ha di se stesso: sappiamo che il nostro corpo cambia, passando da quello di un neonato a quello di un adulto, e poi di un anziano; sappiamo anche che nella nostra esperienza ogni istante porta qualcosa di nuovo. E tuttavia non possiamo fare a meno di pensare che in questo flusso di trasformazione costante ci sia un nucleo, l'io, che si definisce, che è davvero noi, e che continua in modo unitario per tutto questo processo. Questa è una nostra credenza istintiva, e una volta che abbiamo questa identificazione centrale con un io, ovviamente vogliamo proteggerlo e compiacerlo: sentimenti di paura, repulsione o attrazione sono legati ad un forte senso di auto-importanza che deriva dal credere in questo io. Il medesimo senso di auto-importanza offre anche un bersaglio per la sofferenza. Grazie all'identificazione con questo io centrale, diventiamo molto vulnerabili a ogni genere di afflizione emotiva: bramosia, odio, orgoglio, disprezzo e gelosia intensi. La gelosia, per esempio, non potrebbe esistere senza avere come causa un senso di auto-importanza.

Nel pensiero buddhista queste esperienze sono considerate percezioni illusorie, giacché con esse solidifichiamo sia la realtà interna del flusso di coscienza (che invece cambia costantemente), sia il flusso dei fenomeni esterni (che cambiano anch'essi di continuo). Imputare o sovraimputare ai fenomeni i nostri giudizi, i nostri "mi piace" o "non mi piace" in modo eccessivo, ci induce a dare un'immensa importanza al sé, il che, a sua volta, ci fa funzionare in un modo che causa tormento e sofferenza.
L'idea fondamentale del pensiero buddhista è riconoscere la sofferenza e le sue cause per quello che sono, e questa è la risposta all'interrogativo"che cosa c'è di sbagliato nel nostro modo di percepire il mondo fenomenico": è semplicemente sbagliato, nel senso che finisce insofferenza e tormento. A sua volta il tormento ci impedisce di essere aperti agli altri e di esprimere l'altruismo".
Da "Prospettive buddhiste sulle immagini mentali" contenuto in Il Buddha in laboratorio: dialoghi fra il Dalai Lama e la scienza sulla natura della mente a cura di Anne Harrington e Arthur Zajonc.

sabato 17 gennaio 2015

Robina Courtin: la prigione dell'egoismo e tanto altro

 Lo scorso fine settimana sono stata a Pomaia, in provincia di Pisa, all'Istituto Lama Tzong Khapa, per un seminario sul buddhismo. Docente: Robina Courtin. Non era la prima volta che incontravo questa maestra eccezionale (nel 2013 vi ho parlato degli insegnamenti ascoltati in Francia), ma ogni volta ne esco scossa, galvanizzata e piena di entusiasmo.
Il suo modo di insegnare - pieno di humor e qualche volta anche "shoccante" è davvero una sferzata di energia positiva. D'altra parte Robina è una maestra non comune, con un percorso di vita non comune...

Il Buddhismo ci fornisce una ipotesi di lavoro

Se Einstein in persona venisse da voi - spiega Robina Courtin - e vi chiedesse di "credere" nella teoria della relatività, voi come reagireste? Sapremmo tutti benissimo che non c'è niente da "credere"; noi come Einstein dovremmo semplicemente prendere come ipotesi di lavoro una certa teoria e vedere se funziona. Non si tratta di una verità rivelata e neppure del frutto di una speculazione filosofica.
Per fare questo, Einstein ha dovuto lavorare sodo: ipotesi, raccolta di tutte le informazioni, analisi, osservazione, osservazione, osservazione.
E il buddhismo è uguale: prende come ipotesi di lavoro il funzionamento della mente e ne fa un'analisi perfetta, perché - non si stanca di ripetere Robina - that which exists can be cognized by the mind, (tutto) ciò che esiste può essere conosciuto dalla mente!

Una tazza è una tazza

Invece no - sostiene Robina: quando guardiamo una tazza, pensiamo immediatamente "questa è una tazza"; ma la verità è che la nostra coscienza visiva, che percepisce solo forma e colore, invia le informazioni alla mente, che trasforma quelle forme e quei colori in una "tazza". In una frazione di secondo la nostra mente recupera tutti i dati: forma, colore, ricordi, storie, esperienze di questa vita e di quelle precedenti e applica una bella etichetta. Una tazza.
Il fatto è che, a causa della nostra ignoranza o "delusion" (in inglese il termine pare che funzioni meglio) fondamentale, crediamo alle etichette che produciamo. Il lavoro del buddhismo è quello di smontare, strato dopo strato, con precisione infinita, tutto il lavoro automatico fatto dalla nostra mente attraverso eoni di rinascite. Vi pare poco?
Naturalmente nel caso della tazza il lavoro è relativamente semplice; ma provate a pensare a quanto può essere complesso smontare il nostro modo di pensare, di "giudicare" il mondo che ci circonda e le nostre relazioni.

Attaccamento al sé

Questo nostro modo di etichettare, che nei tempi preistorici ci ha salvato dall'estinzione (pensiamo a quanto sia stato utile riconoscere i pericoli e metterci in salvo), oggi ci mette invece in difficoltà. Robina Courtin lo chiama "ego grasping", attaccamento al sé. E' l'assunzione fondamentale di un sé separato, indipendente e reale - l'intera psicologia occidentale si fonda sul fatto che il sé esista in questo modo - che fa di tutto per ottenere ciò che desidera.
E come desidera questo sé? In sostanza, secondo la psicologia buddhista, la nostra mente (che si crede separata e indipendente) non fa che applicare tre categorie di giudizio a tutto ciò che sperimenta: un giudizio positivo (mi piace), un giudizio negativo (non mi piace) e un giudizio neutro (mi è indifferente). Ovvero crede - ingannandosi - che ciò che stà là, fuori, attorno, possa essere giudicato in questi tre modi... e fa di tutto per farlo!


Afflizioni mentali (delusions)

Pensate a quando abbiamo molta fame e vediamo una torta al cioccolato. La nostra mente, tenuto conto delle informazioni inviate della coscienza visiva (forme e colori), somma le informazioni che possiede già: ricordi, esperienze, ecc., e si dice: "una magnifica torta al cioccolato!". E ci viene l'acquolina in bocca, tutto il nostro essere è assorbito dal desiderio di mangiarne … la mente ha applicato l'etichetta "mi piace" e desidera una fetta di quella torta deliziosa.
Ne mangiamo una fetta intera, poi ne prendiamo ancora, ma a metà della seconda fetta comincia a venirci la nausea. La mente dice: basta, non mi piace più; se qualcuno ci obbligasse a mangiarne ancora, forse vomiteremmo (!). Se per caso invece fossimo allergici al cioccolato o se non avessimo mai mangiato una torta, vedendone una rimarremmo completamente indifferenti. Ma la torta è sempre quella: quello che cambia è il modo in cui la nostra mente la interpreta.
Così succede per ogni cosa che sperimentiamo nella vita: l'ego - che si crede self existent - è il regista del nostro film e decide come scrivere il copione. L'ignoranza dell'ego determina l'attaccamento o l'avversione che viviamo, in un continuo su e giù dei nostri stati emotivi.
E per di più, molto spesso pensiamo che tutta questa sofferenza sia "normale", che non se ne possa fare a meno.

You are the boss!

Ma la buona notizia - dice Robina - che è contenuta nella terza Nobile Verità del sentiero buddhista (quella del superamento della sofferenza), è che si può fare a meno di soffrire. Che è possibile non diventare dei "tossicodipendenti" della sofferenza - quello stato in cui non possiamo più fare a meno di soffrire e siamo invischiati negli alti e bassi della mente che si comporta come uno yo yo (the yo-yo mind - definizione di Lama Yeshe, maestro di Robina Courtin).
E siccome anche Buddha - che era un tipo normale, dice la monaca - ci è riuscito, allora lo possiamo fare tutti. Noi siamo il boss! E possiamo essere il nostro stesso terapeuta (be your own therapist!).
Quindi, coraggio, perché non è mai tardi per seminare semi positivi.

nb: non ho potuto fare a meno di utilizzare le parole chiave - in inglese - che usa Robina. Sono potenti!

domenica 4 gennaio 2015

Holy Cow: il collezionista di razze bovine

Se Mother India ha potuto partorire una paladina per la difesa della biodiversità delle specie vegetali come Vandana Shiva o un "Gandhi dell'agricoltura non violenta", non si è però fatta mancare un altro figlio impegnato nella stessa direzione.
Solo che in questo caso siamo di fronte ad un maestro di scuola in pensione - Chandran Master - che si preoccupa del mondo animale.
E che si è inventato una specie di Arca di Noé degli animali da cortile, in particolare le mucche, che significano così tanto nella cultura indiana.

Chandran Master  "colleziona" razze bovine autoctone da 25 anni.
Le raccoglie nella sua fattoria in Kerala, piena zeppa anche di altri animali - galline, capre, pesci negli stagni della proprietà - per conservare, per quanto si può, la memoria delle razze tipiche allevate da sempre nelle campagne indiane, oggi ormai quasi del tutto soppiantate dalle razze ibride importate, che producono più latte, almeno nel breve periodo.

In un paese in cui più del 70% della popolazione vive nei circa 600 mila villaggi rurali, l'economia locale non può prescindere dall'allevamento. Un allevamento che tiene in grande considerazione i bovini, utili per produrre il latte e i derivati, e per lavorare la terra. Si sa che fin dall'antichità la vacca in questa cultura rappresenta quanto di più prezioso e straordinario la natura abbia potuto generare. Fornisce i 5 prodotti cardine dell'economia contadina: latte, burro, ghee, sterco e urina, ma rappresenta anche simbolicamente la casta brahmanica, che la utilizza nel culto.
La vacca sacra (Kamadhenu) è simbolo di abbondanza e persino i poeti, come Premchand, hanno cantato il momento del ritorno a casa, al tramonto, delle vacche dal pascolo, in quell'ora magica fatta di luce ambrata e polvere sospesa che ha preso il nome di "godhuli".
Bisogna pensare inoltre che in un paese in larga parte vegetariano, il latte rappresenta un nutriente fondamentale nella dieta quotidiana. Circa il 60% delle proteine animali provengono infatti dal latte e dai derivati.

L'India però, al pari dell'occidente in corsa verso lo sviluppo, sta velocemente perdendo la propria biodiversità, sia in fatto di varietà vegetali, che animali. Tant'è che Chandran Master, come un ribelle fuorilegge, ha dovuto raccogliere le razze bovine indiane in estinzione mettendosi apertamente contro lo stato del Kerala che ne vietava l'allevamento e la riproduzione a partire da una legge del 1961.
Comunque.
In questo bel video di The Source Project, Chandran Master ci porta nella sue fattoria a vedere quello che ha realizzato. Un'oasi verde dove diverse specie autoctone di mucche quasi estinte altrove, pascolano indisturbate. Il suo assistente e amico d'infanzia, Thomas, lo aiuta nella routine quotidiana. Una mucca Vechur del Kerala - la mucca più piccola del mondo secondo il Guinness dei primati, dato che misura solo 82 cm di altezza, se ne va a cercare qualcosa di buono da brucare, magari qualche foglia di papaya o di banano. Non ha bisogno di nulla di più e il giorno dopo restituirà circa 2 litri di latte dalle proprietà medicinali - sostiene il maestro Chandran, dato che ha potuto cibarsi di molte varietà vegetali utili e ricche di nutrienti.

Oltre a questa mucca, tante altre (circa 17 specie), che però non rappresentano neppure lontanamente le 111 varietà di vacca autoctona che vivevano in India fino a qualche decennio fa. Il punto è che ora gli allevatori, anche le fattorie più piccole, vengono spinti ad acquistare razze ibride importate perché producono molto più latte. Hanno però bisogno di molto più foraggio, molta più acqua e di cure antibiotiche - ricorda il maestro Chandran, sicché nel breve periodo può sembrare un affare, ma alla lunga le varietà di importazione non sarebbero così convenienti. E certo, non lo sarebbero per la conservazione della biodiversità. E poi, le razze ibride non producono latte più di 4 volte nel corso della loro vita, mentre le indigene lo fanno almeno 10 volte.
Insomma, come sempre si ritorna al problema della poca lungimiranza delle scelte economiche e politiche in favore del profitto. Un profitto che riempie le tasche di chi tiene le redini dell'economia globale agroalimentare, che come sempre non ha volto o lo nasconde dietro un marchio.


The Keralan cowboy from the source project on Vimeo.
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