giovedì 30 dicembre 2010

...e buon anno!

Sono in partenza per l'India, ancora una volta in Gujarat per realizzare un documentario sul lavoro di tessitura delle donne. La tessitura dei loro destini attraverso la stoffa ricamata e incrostata di specchietti e perline della tradizione Rabari; ma anche la seta patola, fino ad arrivare al khadi bianco e semplice di Gandhi.
Vi lascio con un mini reportage sulla produzione di turbanti - destinati ai turisti - che un ragazzo cuciva su una terrazza dei tetti rosa di Jaipur.



Buon anno a tutti!

domenica 19 dicembre 2010

Casa

Sabarmati Ashram, Ahmedabad, gennaio 2010

In questi giorni frenetici che precedono il Natale (e la partenza per l'India a gennaio), sto dedicando parte del mio tempo alla ricerca di una nuova casa. Mi è venuta in mente una frase di Gandhi che qualcuno ha dipinto su una tavoletta e ha appeso ad un muro esterno della sua casa sulle rive della Sabarmati, ad Ahmedabad.
Penso anche che la casa di Gandhi, così come di noi tutti, sia prima di tutto la nostra mentalità, la nostra lingua, il nostro corpo. La maniera in cui abitiamo il mondo e lo guardiamo trasformarsi.

Comunque forse l'ho trovata, la casa... vedremo gli sviluppi
Buona settimana a tutti!

sabato 11 dicembre 2010

Vicinanza


"Le cose più importanti della nostra vita non sono né straordinarie né grandiose.
Sono i momenti in cui ci sentiamo toccati gli uni dagli altri."

mercoledì 8 dicembre 2010

Il paradosso dell'arte


In questi giorni sto riguardando un'intervista molto stimolante a Kapila Vatsyayan, danzatrice di danza classica indiana e poi fondatrice e direttrice del Centro Nazionale per le Arti Indira Gandhi di Delhi (nella foto).
Si tratta di un monologo sui vari aspetti dell'arte nella tradizione indiana.
La Vatsyayan si interroga - tra le altre cose - sulla definizione di arte e sulla Tradizione come sorgente per le forme artistiche.

In India la tradizione 'Parampara'  non è mai una dimensione statica: è piuttosto un fluire ininterrotto nel tempo all'interno di binari ben precisi di un'espressione che cambia e si trasforma.
Una tradizione può sopravvivere solo se allo stesso tempo c'è continuità e cambiamento.
L'espressione artistica quindi - sotto forma di narrazione, danza, musica, scultura, ecc. - deve fluire seguendo una certa direzione predeterminata, ma mentre fluisce genera cambiamenti. In altre parole, la tradizione consente la metamorfosi all'interno di alcune leggi fondamentali che fanno da sostegno e da guida.
Questo particolare sistema di accettare il cambiamento come parte integrante della vita in continua trasformazione ha fatto sì, per esempio, che alcune storie cosiddette 'tradizionali' in realtà vengano raccontate in modi sempre diversi.

Lo sto constatando quotidianamente mentre collaboro alla stesura di alcune fiabe indiane che andranno a far parte di una antologia illustrata per la Mostra Internazionale dell'Illustrazione per l'Infanzia di Sarmede del 2011.
E' una bellissima occasione per approfondire e riprendere le fiabe del Pancatantra o alcuni miti contenuti nei poemi epici o nei Purana.
E' anche una sorta di viaggio nell'immaginario più semplice e potente in grado di raccontare il mondo attraverso le storie di saggi animali, sciocchi brahmani, divinità imperfette, attraverso una catena senza fine di vicende che raccontano il Vero e lo ricreano, come se trasmigrassero da un corpo all'altro.

domenica 28 novembre 2010

Ordito e Trama


"Dall'ordito si comincia. E' la parte meno bella del tessuto, ma fissa i meridiani, il percorso longitudinale dell'intreccio. [...] Poi arriva la trama e tutto è possibile: le torsioni, gli spessori, i colori, i contrasti, i nodi, gli schemi, le sorprese, i motivi che ricorrono.
Ma ordito e trama non sono solo metafore, sono il panorama dell'India con i suoi tessuti, e i suoi telai. [...] Stoffe e tessuti che brillano di colori non smettono di vestirla anche negli angoli più dimenticati. E naturalmente non parlano solo di bellezza,  ma anche di lavoro, di fatica, di tradizioni, di vita quotidiana e di donne". (dal blog di Mariella Gramaglia, Ordito e Trama).

Manca un mese alla partenza per l'India, sempre in cerca di storie da raccontare che facciano bene a mente e cuore. Storie 'curative' contro lo scetticismo e l'indifferenza, due mali che mi piacerebbe riuscire a limitare il più possibile...
Tra un mese dunque si parte per il Gujarat, per documentare in un reportage di storie al femminile il lavoro di chi difende le culture tradizionali di questa parte dell'India dalla globalizzazione e dallo sfruttamento.

Andiamo a visitare il Kutch, un deserto salato ai confini con il Pakistan dove vivono ancora gruppi di popolazioni semi nomadi che vivono di pastorizia. Sono i Rabari, divisi in numerose jati, gruppi tribali che hanno conservato la loro identità culturale e le tradizioni artigianali.
Le donne in particolare sono delle formidabili tessitrici e ricamatrici; conservano un abbigliamento del tutto particolare (sono vestite di nero e ricoperte di pesanti gioielli) e riescono a vivere grazie anche alle storie che ricamano sui tessuti degli arazzi con infinita pazienza e grande abilità.

In Gujarat sono nate negli ultimi decenni molte associazioni o veri e propri sindacati autonomi - come Sewa, Self Employed Women Association - per difendere il lavoro non riconosciuto e non valorizzato di queste donne, dare loro un ruolo più significativo nell'ambito della società, conservare questa forma di biodiversità.
Andremo a visitare anche Sewa, appunto, che ha il suo quartier generale ad Ahmedabad, per vedere il lavoro che si sta facendo nelle grandi città a favore delle donne che vivono in contesti urbani, estremamente difficili e competitivi.

Il mondo della tessitura artigianale è per me sempre molto interessante: esercita un fascino che è fatto di tanti aspetti diversi.
E' un mestiere antichissimo, richiede una abilità e una memoria straordinarie, crea bellezza negli oggetti quotidiani di uso comune, come gli abiti, che diventano simboli culturali oltreché vere e proprie opere d'arte.
Ma anche la stoffa più semplice, come il khadi bianco che si produce al Sabarmati Ashram di Gandhi di Ahmedabad, che lo stesso Mahatma contribuiva quotidianamente a produrre, è carico di una storia che lo trasforma in un simbolo straordinario e un veicolo di affermazione dell'identità unica e insostituibile di ciascuna persona.

lunedì 22 novembre 2010

Lo sapevi?


Mentre prepariamo la cena, sparecchiamo e decidiamo che programma guardare in Tv, mentre pensiamo alle vacanze di Natale -ammesso che ce le possiamo permettere- o tuttalpiù, mentre aspettiamo di prendere sonno, ci prefiggiamo di raggiungere un obiettivo importante per l'anno prossimo, mentre siamo intenti a vivere senza accorgecene, il futuro corre avanti...


Questo video mi affascina tanto quanto mi atterrisce...

sabato 13 novembre 2010

Un pensiero per la Birmania


La Birmania è un paese meraviglioso, ho avuto la fortuna di visitarlo due volte, una nel 1984, ero poco più di una bambina, e l'ultima volta nel 1994.
Entrambe le volte mi è rimasta un'impressione fortissima dovuta alla bellezza dei luoghi e alla gentilezza delle persone incontrate.

La prima volta in particolare, dato che ero piccola e quasi nessun bambino viaggiava in paesi come questo, i birmani, quelli delle guest house, dei ristorantini, ma anche i passanti che ci avvicinavano, mi 'adottavano' immediatamente e mi coccolavano facendomi dei regali: un pezzo di jaggery -zucchero di palma cristallizzato in dolcissimi cubetti- un cestino di bambù, una statuetta di legno.

La seconda volta ricordo il bisbigliare furtivo di qualcuno che ci chiedeva cosa si sapesse del loro paese in Italia e in occidente.
Mi ricordo in particolare una 'guida turistica' che ci scarrozzava su un carretto trainato da un cavallo gracile per la valle dell'Irravaddy a visitare i templi buddhisti di Pagan, che dopo essersi guardato attorno, ci chiese se Pagan a distanza di 10 anni ci sembrava lo stesso posto.


No, non era proprio come 10 anni prima: non c'erano più alberghetti e negozi, niente più baracchini del tè. Solo un paio di alberghi governativi (uno di lusso e uno decisamente no).
Era stato eliminato tutto, e le famiglie che gestivano le attività commerciali autonome, trasferite chissà dove.

Ricordo anche di aver incontrato, a Kalaw, una cittadina vicino al lago Inle un vecchissimo missionario, Padre Angelo, che nel '94 doveva avere qualcosa come 85 anni, che ci raccontò di essere in Birmania da 60 anni, di aver visto con i propri occhi i cambiamenti drammatici di quegli anni e la repressione dei giovani studenti di Rangoon, uccisi dal regime per aver dimostrato apertamente il loro dissenso.
Padre Angelo però aveva ancora voglia di resistere e di ridere... e di offrire a dei viaggiatori impolverati un Nescafè con i biscotti Osvego!

Sapere che Aung San Suu Kyi, dopo anni di prigione e arresti domiciliari, è stata liberata è una notizia bellissima, è come venire a sapere che il Mahatma Gandhi è stato fatto uscire dalle prigioni dell'ottusità britannica di 100 anni fa o che il Dalai Lama è stato fatto rientrare nel suo Tibet.
I retroscena di questa decisione del governo militare birmano li verremo a sapere un giorno, forse, ma adesso godiamoci questo momento memorabile.
Chissà cosa avrebbe scritto Tiziano Terzani, lui che sapeva essere sempre nel posto giusto al momento giusto...

domenica 7 novembre 2010

L'India dei grandi numeri



Jaipur, gennaio 2010

In India vivono oggi un miliardo 150 milioni di persone di cui 220 milioni sopravvivono con meno di un dollaro al giorno, mentre altri 500 milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno.
Ogni anno si laureano 2 milioni di giovani, di cui 200 mila ingegneri (il doppio di Europa e Stati Uniti).
Ci sono però 380 milioni di analfabeti, la maggior parte di questi sono donne.
L'India è una nazione giovane: il 70% dei suoi abitanti ha meno di 35 anni, che contribuiscono allo sviluppo del paese il cui tasso di crescita sfiora il 9%.
Sono quasi 2 milioni le persone senza casa.
La densità di persone per km quadrato tocca nello stato del West Bengal le 903 persone.
La popolazione è strutturata in migliaia di caste di cui il 16% viene classificata come fuori casta (quasi 167 milioni di persone).
Si parlano 23 lingue ufficiali, circa 2000 dialetti, e si professano una decina di religioni diverse, rivolgendosi ad un pantheon numeroso quanto sorprendente.
Si viaggia sulla rete ferroviaria più lunga del mondo o su una dei milioni di biciclette in circolazione.
...e queste sono solo alcune delle complessità di questo posto incredibile!

martedì 2 novembre 2010

Grazie ancora!


Anche questa esperienza al Festival della Scienza di Genova è finita.

E' stata una giornata piena di soddisfazioni e ritrovare Bunker Roy, parlare con lui del lavoro fatto e di quello in programma per il futuro, una bellissima opportunità.
La sala era piena di persone con tanti interrogativi, domande sul sistema Barefoot e sul destino dei poveri in India e nel mondo, ma anche sul senso di vivere in questo occidente pieno di difficoltà, di incertezze, di dubbi sul modo di affrontare la vita.

Gli interventi del pubblico dopo la conferenza ed il documentario erano tutti estremamente commossi e grati di poter avere finalmente qualche risposta rispetto al disagio di chi come tanti di noi si rende conto di non poter più reggere un sistema che si auto distrugge.
Qualcuno ha manifestato la propria vergogna o il proprio senso di impotenza. Qualcuno ha chiesto se vale ancora la pena di rimanere qui per affrontare una realtà che sembra tanto povera di prospettive quanto quella della gente a piedi scalzi delle campagne indiane alle prese con la sussistenza quotidiana.
Ognuno di noi sentiva, nei confronti di Bunker e della sua folle e utopica invenzione, un senso di gratitudine e di solidarietà.
Mi è sembrato chiaro ancora di più come il Barefoot College sia stato creato non solo per gli 'altri', ma forse proprio per tutti, anche per 'noi'.

mercoledì 27 ottobre 2010

Due appuntamenti con il Barefoot College


Due appuntamenti con il Barefoot College, entrambi domenica 31 ottobre: il primo a Genova, per una conferenza con Bunker Roy al Festival della Scienza. Durante la conferenza verrà proiettato il documentario Sulle orme di Gandhi - il Barefoot College di Bunker Roy, che io e mio padre abbiamo realizzato quest'anno.
L'evento è previsto per le ore 18,00 a Palazzo Ducale, Sala del Minor Consiglio.

Poco prima, alle 15,00 circa a Brescia, in occasione del 23° Congresso nazionale del Movimento Nonviolento ancora una proiezione del documentario.

Io sarò a Genova e sono già emozionata!

giovedì 21 ottobre 2010

Giusto Cotone


Lo sapevate che il cotone è la materia prima non alimentare più importante al mondo? Lo si coltiva un po’ in tutto il pianeta, ma i paesi maggiori produttori sono Cina, India, Usa, Pakistan, Brasile, Uzbekistan, che nel 2009 hanno prodotto tutti insieme l’85% del cotone. Il cotone costituisce poi il 40% della fibra utilizzata nell’industria tessile, un’industria potente, che coinvolge 60 milioni di lavoratori in tutto il mondo, i quali sono spesso giovanissimi (donne e bambini), migranti, sottopagati, non sindacalizzati, in condizioni di lavoro insalubri ed estenuanti.
Nel 2008 però questi lavoratori hanno permesso una produzione globale che raggiungeva quota 600 miliardi di dollari.

Dal 2005, con la cessazione della validità degli Accordi Multifibre, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha liberalizzato definitivamente gli scambi mondiali di tessili e abbigliamento, dando luogo ad una guerra competitiva tra le multinazionali della produzione e commercio di prodotti tessili.
Catene come Zara o H&M, i cui negozi abbiamo visto apparire pochi anni fa nelle nostre città, sono appunto una conseguenza di questa liberalizzazione, e hanno dato vita al fenomeno della fast-fashion, ovvero la moda usa-e-getta, che costa poco e dura ancor meno.
Zara per esempio, marchio spagnolo diffuso ormai in tutto il mondo, fondata da Arancio Ortega, decimo fra gli uomini più ricchi del mondo, conta 3000 punti vendita in 64 paesi.
Ma dietro al successo di Zara, c’è un sistema di produzione che, come dice Deborah Lucchetti nel suo libro ‘i vestiti nuovi del consumatore’, fa si che “quel vestito, disegnato in Spagna, potrebbe essere stato cucito in Bangladesh, con tessuti provenienti dall’India e rifinito in Spagna presso le unità di controllo qualità, oppure (…) potrebbe essere stato confezionato sulle navi officina in partenza dalla Cina da lavoratori non cinesi con etichette made-in-Bangladesh, per fare rotta su Madrid, per evitare i dazi alle dogane e ridurre ancora i costi di produzione”.
E’ un fatto comunque che anche alcune delle nostre griffe made in Italy si servono del lavoro di asiatici e sudamericani, i quali intascano tra lo 0,5 e il 3% del prezzo finale del prodotto, mentre i grandi distributori e i marchi si riservano l’80% del prezzo.

Un altro aspetto inquietante di questo nuovo sistema globalizzato di produrre e vendere abbigliamento è lo scarso controllo sulla materia prima, che viene coltivata in zone del mondo dove le leggi che regolamentano l’impatto ambientale della produzione di cotone, per esempio, non sono uniformi.


Pare che circa 2 miliardi di dollari vengano spesi ogni anno per i pesticidi chimici necessari per scongiurare l’attacco alle piante di cotone (spesso geneticamente modificate) da parte di parassiti e infestanti. Con una ricaduta sui contadini in termini di minaccia alla loro salute, dato che si trovano costantemente a rischio di avvelenamento per contatto o inalazione.
E l’aver introdotto cotone Ogm, che secondo i big dell’agrobusiness (Monsanto in testa) doveva favorire la resa e la riduzione di fertilizzanti e pesticidi chimici, non ha fatto altro invece che peggiorare drammaticamente le condizioni dell’ambiente e della vita dei coltivatori.

Nei paesi maggiori produttori, il cotone Ogm costituiva nel 2007, già il 43% del totale, e in India in particolare si sono registrati in questi anni molti casi di suicidi tra i contadini, indebitati fino al collo per ripagare l’acquisto di sementi Ogm sterili, pesticidi tossici e fertilizzanti dannosi per l’ambiente, il cui risultato doveva invece essere l’assicurazione del benessere delle loro famiglie.
Oggi si sta cercando di intervenire a livello internazionale per sollecitare una maggiore consapevolezza rispetto a questi temi e per difendere e migliorare, dove possibile, le condizioni dei produttori e lavoratori tessili. In particolare, la Clean Clothes Campaign, nata ad Amsterdam negli anni ’90, ha lavorato molto per denunciare le condizioni di sfruttamento e iniquità dei milioni di lavoratori tessili, per lo più invisibili e ignorati da tutti, che lavorano per fornirci jeans, magliette e scarpe alla moda.


Ma in ultima analisi, è dalle nostre scelte individuali che dipende il futuro nostro e di chi vive accanto a noi: conoscere la realtà delle cose è senz’altro un primo passo; informarsi, non fidarsi delle dichiarazioni ufficiali e della presunta eticità dei prodotti che consumiamo, anche perché la stessa eticità sta diventando un prodotto di mercato. Insomma, il nostro sforzo di singoli è quello di cercare di mettere la nostra intelligenza a servizio di un bene comune.
Utopia? Forse, ma vale la pena provarci.

Se volete leggere di più:
‘I vestiti nuovi del consumatore’, Deborah Lucchetti, ed. Altreconomia, 2010
‘Le navi delle false griffe’, Rita Fatiguso, Il Sole 24 Ore
‘Clean Clothes. A global movement to end sweatshops’, Liesbeth Sluiter, Pluto Press, 2009

On line:
Campagna Abiti Puliti
Clean Clothes Campaign
la rivista mensile Altreconomia
Assemblea Generale Italiana Commercio Equo e Solidale

martedì 12 ottobre 2010

100% Masala


Parte del mio lavoro quotidiano consiste nel promuovere presso le scuole elementari e medie i laboratori didattico-creativi della cooperativa sociale per la quale lavoro.
In particolare, i progetti che propongo personalmente sono i cosiddetti laboratori 'interculturali', un aggettivo ormai entrato nel linguaggio corrente dell'ambiente scolastico italiano che si trova a fare i conti con bambini che provengono dai quattro angoli del mondo senza essere preparato a comprendere a fondo i diversi punti di vista e a valorizzarli adeguatamente.
Devo dire che tra gli insegnanti ho incontrato comunque molte persone sensibili e sinceramente interessate ad offrire ai ragazzi possibilità di conoscenza nuove e a stimolare in loro la curiosità di incontrare le culture 'altre'.
Del resto, non è più possibile ignorare di far parte di un mondo sempre più interconnesso, dove le scelte di chi vive lontano da noi ci riguardano da vicino e, viceversa, la nostra disponibilità a prendere consapevolezza dei nostri comportamenti in fatto di ambiente, politica e cultura hanno conseguenze a breve e lungo termine nel resto del mondo.
Credo che oggi più che mai sia giusto renderci conto di quanto noi siamo già costituiti da una mescola tra la cosiddetta 'cultura italiana' e le culture di chi vive -ho ha vissuto- accanto a noi.
Non ci rimane che guardare meglio e più da vicino il nostro prossimo.

Molto interessante e devo dire anche divertente, le riflessioni che fece l'antropologo americano Ralph Linton nel 1937 a proposito dell'idea naive e inconsapevole che il cittadino americano medio ha della sua propria cultura: "Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente domesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini inventati dagli indiani delle boscose contrade dell’est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani.
Tornato in camera da letto, prende i suoi vestiti da una sedia il cui modello è stato elaborato nell’Europa meridionale e si veste. Indossa indumenti la cui forma derivò in origine dai vestiti di pelle dei nomadi delle steppe dell’Asia, si infila le scarpe fatte di pelle tinta secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto, tagliate secondo un modello derivato dalle civiltà classiche del Mediterraneo; si mette intorno al collo una striscia dai colori brillanti che è un vestigio sopravvissuto degli scialli che tenevano sulle spalle i croati del diciassettesimo secolo […]
Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante … il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del sud, la forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dall’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia Minore […]
Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli Indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia, o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indoeuropeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano". (da Marco Aime, Eccessi di cultura, Einaudi 2004)

mercoledì 6 ottobre 2010

Verde Kerala

Oggi mi sono concessa una pausa: ho acceso il computer e cercato le canzoni dei vecchi film malayalam cantate da K J Yesudas, un musicista apprezzato in tutto il mondo e cantante playback in molti film indiani, in hindi e in svariate altre lingue del subcontinente (qui sotto la canzone Manjubhashini tratta dal film Kodungallooramma, 1968).



Una di queste in particolare la collego ai colori abbagliante del Kerala, un luogo bellissimo che ho visitato alcune volte, una terra fertile che offre agli occhi tutte le sfumature di verde. Il verde abbagliante delle risaie ordinatamente pettinate, il verde cupo delle foreste che ricoprono le montagne, il verde muschio che riveste delicatamente ogni superficie esposta alle gocce di pioggia tiepida dei monsoni.
Dato che ero dell'umore giusto ho aperto una confezione di pappadum al pepe nero e ne ho fritti 3 o 4 nel ghee da accompagnare ad una ciotolina di mango pickle.
Che festa!


NB: Se siete nei paraggi, provate ad andare a fare la spesa di prodotti orientali (di cui una buona parte indiani) a Bologna in via Mascarella da Asia Mach: io ci sono passata la settimana scorsa e sono tornata a casa con due borse piene di cose buone! in particolare, la marca Patak, che produce salse e condimenti vari mi è stata consigliata da diversi amici indiani. E in effettti la pasta tandoori, che ho provato alcune volte con il pollo, è buonissima!

martedì 5 ottobre 2010

Ringraziamenti


Grazie mille a tutte le persone intervenute ad Internazionale Ferrara sabato scorso e grazie anche a chi voleva venire ma poi non ce l'ha fatta, e chi mi aveva già avvertito che non sarebbe venuto.
Insomma, sono veramente contenta del risultato della proiezione sul Barefoot College; spero davvero di poterne parlare ancora, di poter mostrare cosa l'entusiasmo, la determinazione e il cuore delle persone è in grado di fare.
Ringrazio in particolare il Movimento non Violento, i ragazzi che hanno promosso l'incontro nel pomeriggio e il suo fantastico presidente, Daniele Lugli, per la bella introduzione; e ringrazio mio padre per il gran lavoro nei mesi scorsi.
(la foto è di Alejandro Ventura)

giovedì 30 settembre 2010

Su il Sipario!


In Rajasthan, il teatro dei burattini vanta una lunga tradizione. Come in molte culture, narra le storie di Re e Regine, Demoni e Dei, ma anche eroi vicini alla cultura tradizionale di villaggio.
A Tilonia, al Barefoot College, i burattini però rivestono un ruolo particolare che è quello di dar voce ai problemi della gente: dalle dispute tra famiglie in merito a questioni di villaggio, ai problemi legati alle difficoltà economiche, di lavoro, di debiti contratti dai capifamiglia, i matrimoni precoci, il degrado dell'ambiente, i diritti non riconosciuti.

Ram Niwas, il responsabile della sezione teatrale, costruisce personalmente, assieme ai suoi aiutanti, i burattini di cartapesta che vengono realizzati per gli spettacoli. In un piccolo laboratorio poi alcune donne cuciono gli abiti di scena.
I personaggi sono quelli della realtà locale: lo stesso Bunker Roy (nella foto sotto), Aruna, sua moglie, e tutti i responsabili del Barefoot College; ma anche il Saggio, l'Usuraio, la Levatrice, il Maestro di scuola, la Pettegola, ecc.


La piccola compagnia teatrale si sposta di villaggio in villaggio, raccogliendo durante il giorno le testimonianze delle persone (adulti e bambini) che vogliono porre di fronte al pubblico un problema o affrontare una questione importante. Ram Niwas scrive poi assieme agli altri attori della compagnia la sceneggiatura, discutendo i vari aspetti della questione per cercare di proporre efficacemente l'argomento alla platea.


La sera infine, di fronte all'intero villaggio, va in scena la rappresentazione, preceduta da una introduzione del burattino più famoso di Tilonia: Jockim Cha Cha (foto sopra, Ram Niwas sta dipingendo il viso di Jockim), lo zio saggio che apre la serata, spiega agli spettatori quel che avverrà durante la commedia, dialoga con loro e trae la morale al termine dello spettacolo.
Le sue parole vengono tenute in grande considerazione: ci racconta Ram Niwas che una volta per esempio fu grazie a lui che le donne di un villaggio che stavano lavorando alla costruzione di un tratto di autostrada, si convisero a scioperare per ottenere stipendi più equi e un trattamento più dignitoso.
Potere del Teatro!

sabato 25 settembre 2010

Energia solare a piedi scalzi

"even a single lamp dispels the deepest darkness" - M K Gandhi
(anche una sola lampada può rischiarare l'oscurità più profonda)



Un altro aspetto molto interessante e particolarmente attuale legato al viaggio-reportage a Tilonia per documentare i diversi aspetti del Barefoot College è lo sviluppo della elettrificazione ad energia solare.
In effetti il College iniziò molti anni fa ad interessarsi all'energia solare come alternativa valida alla mancanza cronica di elettricità nei villaggi indiani. Nel 1984 una agenzia di sviluppo danese istallò a Tilonia i primi pannelli solari, affidandone la manutenzione ad un ingegnere che dopo poco dovette rientrare, lasciando il College a chiedersi come si poteva fare per garantire il buon funzionamento dell'impianto. Così nacque il laboratorio solare, che si trasformò poco dopo in scuola, il cui intento era ed è quello di formare ingegneri solari a piedi scalzi in grado di gestire autonomamente l'assemblaggio e il mantenimento della strumentazione ad energia solare.
Questa decisione rientra perfettamente nella politica del College che mira a demistificare la tecnologia e a decentralizzare il potere e la capacità di gestirla in autonomia. Si tratta poi di una posizione piuttosto vicina a quella di Gandhi, che certo non vedeva di buon occhio il progresso tecnologico che toglie lavoro alla gente e lo consegna nelle mani dei pochi che lo possono controllare. Lo stesso Bunker sostiene che la tecnologia può essere introdotta nel villaggio solo se lo stesso è in grado poi di gestirne ogni aspetto senza dover dipendere da esperti venuti dalla città.
Fin dagli anni '80 quindi il Barefoot College iniziò a formare persone analfabete o semianalfabete, soprattutto donne, alla costruzione e alla manutenzione di lampade, batterie, pannelli solari e fornelli solari. La scelta ricadde all'inizio sulle ragazze del villaggio perchè si mostrarono molto interessate e motivate ad imparare e, grazie alle nuove competenze acquisite, poterono poi lentamente guadagnarsi una posizione migliore nell'ambito della società (e persino uno stipendio!).
Una delle scommesse più importanti del College fu poi quella di esportare il sistema degli ingegneri solari a piedi scalzi nelle zone rurali arretrate dell'India e del mondo.
Nei primi anni '90 un certo numero di pannelli solari vennero istallati in alcuni villaggi del Ladakh, dove la lontananza e la difficoltà di accesso di certe zone le rendeva quasi del tutto escluse dall'approvvigionamento di energia elettrica e dove i lunghi inverni freddi causavano molte difficoltà alla gente dei villaggi.


Il Barefoot College poi arrivò anche in Afghanistan, migliorando di fatto il sistema di vita di diversi villaggi. E poi l'Africa e l'America latina.
E' Bunker che visita personalmente le zone più arretrate del pianeta, parlando ai capi villaggio perchè si convincano a mandare qualche persona, possibilmente donne, ad imparare questo mestiere.
Così dagli anni '90 più di mille persone sono passate al College, rimanendo per un training di 6 mesi prima di poter fare ritorno a casa portando con sè nuove tecnologie e nuove prospettive.
Le donne sono molto orgogliose di contribuire allo sviluppo del proprio villaggio, senza contare i benefici economici dell'uso dell'energia solare. Si calcola infatti un enorme risparmio in kerosene, carbone, legna (che vengono normalmente utilizzati per cucinare ed illuminare le abitazioni) oltre agli effetti positivi sull'ambiente.
Così come Gandhi suggeriva di filare il cotone indiano quotidianamente per garantirsi una indipendenza dai sistemi 'ufficiali' di mercato che imponevano prodotti importati e sfruttavano ed esaurivano le risorse degli indiani, al Barefoot College si propone il sistema del learning by doing in cui anche per la realizzazione di strumenti tecnologici come quelli ad energia solare, ci sia la possibilità di riguadagnarsi indipendenza e libertà.

Ma l'utilità di questo sistema è anche quella di essere riuscito ad infondere fiducia alle persone più vulnerabili e apparentemente senza prospettive: le donne in particolare hanno l'opportunità di migliorare la propria vita e quella della comunità di villaggio nonostante siano senza titoli o senza istruzione. Anche in questo campo dunque il lavoro più importante e quello più difficile è quello di cambiare la mentalità delle singole persone per aprirla a possibilità mai considerate in precedenza.

Sabato 2 ottobre siete invitati a vedere il mio documentario sul Barefoot College nell'ambito del festival Internazionale Ferrara 2010.
Alla sala Boldini, via G. Previati, 18 a Ferrara (in centro, a due passi dal Teatro Comunale). Alle 18,00

la foto dei monaci che trasportano i pannelli solari è di Mr. Bhurji, fotografo scomparso prematuramente in servizio al Barefoot College per tanti anni. E' una delle immagini-simbolo del College.

domenica 19 settembre 2010

Scuole di notte


Questo mese sulla rivista Madrugada, edita dall'associazione Macondo, è uscito un mio articolo sul sistema educativo proposto dal Barefoot College di Tilonia, di cui ho già parlato qui e che costituisce il soggetto del documentario che presento tra poco al Festival Internazionale Ferrara.
Lo riporto qui di seguito:

"Sono quasi le sei di pomeriggio e Neraj, una ragazzina di 12 anni che vive nel villaggio di Kotri, nello stato del Rajasthan, in India, si avvia verso casa con le capre che ha portato al pascolo.
E’ la terza di cinque figli –tre femmine e due maschi- di una povera famiglia di contadini delle campagne indiane.
Deve ancora mungere le due capre e dar loro da bere, prima di potersi dare una rinfrescata al viso e correre in una fattoria poco lontano il cui proprietario ha deciso di prestare gratuitamente una delle stanze della casa alla Scuola di Notte dei bambini di questa zona.
Neraj non vuole perdere la lezione, del resto deve dare il buon esempio agli altri, dato che è impegnata nell’organizzazione delle Scuole di Notte e anche come presidente del Bal Sansad, il Parlamento dei Bambini, che amministra le 559 scuole sull’intero territorio nazionale.

A dare la possibilità a Neraj e ad altre migliaia di bambini poveri che vivono nelle zone rurali dell’India di andare a scuola e partecipare alla vita sociale e politica della comunità è una organizzazione nata quasi 40 anni fa con il nome di SWRC (Social Work and Research Center), oggi conosciuta con il nome di Barefoot College, la Scuola dei Piedi Scalzi.

Fondata nel 1972 da Bunker Roy, giovane esponente della ricca borghesia bengalese deciso ad intraprendere una ‘carriera’ poco ortodossa, il Barefoot College si propose da subito di inserirsi concretamente nella realtà rurale indiana provando a risolvere alcune delle emergenze locali.
Partendo dalle esigenze concrete della gente, in prima istanza la salute, l’acqua potabile, il lavoro, l’organizzazione cercò una strada che venisse direttamente dalle persone coinvolte, e che le stesse potessero gestire senza intermediari e senza aiuti esterni.

Tra le diverse soluzioni proposte dal Barefoot College, in particolare ci concentriamo sull’aspetto ‘educazione’, che l’organizzazione ha strutturato in maniera originale.
I presupposti fondamentali dell’approccio Barefoot in campo educativo si possono riassumere in parte in una frase di Gandhi: ‘imparare a leggere e scrivere non è il fine dell’educazione e nemmeno il suo principio. É soltanto uno dei mezzi con cui si possono educare l’uomo e la donna. Leggere e scrivere di per sé non sono educazione’.
Come il Mahatma infatti, Bunker Roy sostiene che non sia il grado di istruzione o un attestato ufficiale a stabilire il valore e l’utilità di una persona, ma la sua concreta capacità di contribuire al proprio sviluppo e a quello della comunità. Il significato di educazione dunque va ben oltre il puro esercizio intellettuale, ma comprende invece i saperi tradizionali appresi dalla famiglia, la consapevolezza e la partecipazione civica, l’apprendimento di un lavoro manuale produttivo.
Questi principi però dovevano essere applicati ad una società in cui l’analfabetismo e l’abbandono scolastico erano preponderanti.
I figli dei contadini indiani, ieri come oggi, sono esclusi dalla scuola governativa per diversi motivi: sono bambini che devono necessariamente contribuire al mantenimento familiare aiutando nei lavori domestici, nei campi o nell’allevamento degli animali. Le scuole governative sono spesso troppo costose o troppo lontane, senza contare l’annoso problema dell’assenteismo cronico dei maestri statali che disertano le lezioni vanificando gli sforzi delle famiglie.
Il Barefoot College pensò dunque, fin dal 1975, di proporre un approccio diverso al problema, istituendo le prime Night Schools, scuole notturne che accolgono i bambini al ritorno dalle incombenze quotidiane per offrire tre ore di lezione tenute da un ‘insegnante a piedi scalzi’. Fu il College a proporre che gli insegnanti, stipendiati dalla comunità (e quindi controllati dalla comunità di villaggio), fossero formati internamente; sostenuti da una profonda motivazione e passione per questa professione, anche senza un titolo ufficiale potevano, dopo un training appropriato insegnare nelle scuole.
Il Governo del Rajasthan si oppose fermamente a queste proposte, sostenendo che mandare a scuola dei bambini dopo una giornata di lavoro fosse un’ingiustizia e che farli seguire da degli insegnanti senza titoli fosse illegale. Bunker Roy però proseguì sulla strada intrapresa, e oggi 3500 bambini (di cui 2800 femmine) frequentano regolarmente le Night Schools nel solo stato del Rajasthan.


Le scuole, ospitate in locali messi a disposizione gratuitamente da qualche membro della comunità di villaggio, sono rifornite di acqua potabile (che purtroppo non sempre è a disposizione nelle scuole governative) e di illuminazione ad energia solare.
Le materie insegnate comprendono, oltre a quelle tradizionalmente inserite nel piano di studi, anche educazione civica e una disciplina pratica, che dia l’opportunità -soprattutto alle bambine- di intraprendere poi una professione autonoma.
Ma durante le lezioni, aperte da una canzone che parla di un unico Dio unico, che può avere tanti nomi, si parla anche dei problemi quotidiani: le difficoltà nel lavoro dei genitori, le caste, i matrimoni precoci, l’inquinamento dell’ambiente.
Nel 1993 si costituì uno speciale organo che amministra le centinaia di scuole di notte sparse su tutto il territorio indiano. Il Bal Sansad, Parlamento dei Bambini, è formato da un presidente (oggi è Neraj, la ragazzina di cui parlavamo) e 13 ministri, eletti dai bambini delle Night Schools ogni due anni. Il Parlamento si riunisce una volta al mese per discutere dei problemi delle scuole: l’approvvigionamento di materiale didattico, l’efficienza dei maestri, l’agibilità delle aule, la partecipazione dei bambini alle lezioni. Non è un gioco, è un organo che ha concreti poteri.
L’idea che lo sostiene è che la politica, quando è pulita è fatta per migliorare la vita delle persone (grandi e piccole), e che ciascuno può e deve dare il proprio contributo perché il sistema funzioni. Molti dei bambini che hanno fatto parte del Parlamento proseguono in età adulta il loro impegno nell’ambito del Barefoot College – e delle centinaia di altre piccole associazioni locali derivate dal College, per portare avanti il lungo e paziente lavoro di cambiamento della mentalità: trasformare la gente delle campagne, analfabeti e semianalfabeti che spesso non hanno consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri diritti in persone autonome, responsabili e in grado di affermare la propria dignità".

mercoledì 8 settembre 2010

Mango curry e souvenir


La storia e i profumi di questo libro ci conducono dall'India all'Africa all'Europa seguendo il destino degli immigrati indiani nell'Africa orientale al seguito dei colonizzatori europei.
Gli antenati della scrittrice, Yasmin Alibhai Brown, giunsero in Uganda per cercare fortuna - e lavoro - adattandosi a qualunque occupazione, finendo per lo più per divenire commercianti nelle grandi città così come nei luoghi più remoti e pericolosi, ma in qualche caso facendo davvero fortuna in una terra considerata dagli espatriati come una sorta di paradiso terrestre.
Il libro si apre con il racconto della scrittrice e protagonista nel momento in cui fugge dall'Africa divenuta troppo pericolosa per la comunità indiana, braccata dall'esercito del dittatore Idi Amin salito al potere all'inizio degli anni '70.
Da questo nodo temporale il racconto si stende nel passato, a rievocare l'infanzia e l'adolescenza della scrittrice; ma anche negli anni successivi all'arrivo della Alibhai Brown in Inghilterra, ripercorrendo parallelamente alla storia personale anche la storia sociale e politica degli anni africani e di quelli inglesi.
Ma mentre leggiamo della vita di sacrifici e di umiliazioni degli immigrati indiani in Africa o in Inghilterra (erano comunque considerati degli 'ospiti' più o meno graditi, ovunque si trovassero), un profumo piccante di zenzero e curcuma che soffriggono nel burro caldo ci accompagna; o una zaffata di caramello ci sorprende mentre voltiamo pagina, facendoci venire l'acquolina in bocca...
La narrazione infatti è letteralmente farcita di ricette che la scrittrice ha collezionato nel corso di quasi 60 anni, la maggior parte delle quali ereditate dalla madre Jena, abilissima cuoca e personaggio di straordinaria umanità. Ricette dolci e salate risultato di un mix culturale derivato dalla lunga permanenza in Africa o nel Regno Unito e costruito attorno alla storia della comunità indiana mussulmana ismailita di cui la protagonista fa parte.
Altro elemento di grandissimo interesse sono i personaggi che animano il libro: dal domestico africano Japani, a servizio della famiglia della Alibhai Brown negli anni '50, alla formidabile Mama Kuba, beneamata nonna adottiva della scrittrice, ai vari zii e cugini con i loro vizi e le loro stravaganze, al V.A. (Vero Amore) e primo marito della scrittrice, ma soprattutto Kassim, il padre - personaggio eccentrico quanto inaffidabile - e la madre Jena, protagonista assieme alla scrittrice delle vicissitudini della famiglia eternamente in esilio.

Dato poi che mi piace molto cucinare (lo ammetto, il titolo mi ha catturata proprio per i suoi ingredienti golosi), ho provato qualcuna delle ricette, che vi ripropongo qua sotto...

"[...] Talora la mamma comprava un piatto di kuku paka, e in quelle sere andavo a letto con la camicia da notte macchiata di salsa giallina e odorosa di cocco, sognando la volta successiva.

Kuku Paka (per 4 o 5 persone)

il succo di mezzo lime, 2 cucchiaini di aglio tritato, 1 cucchiaio di zenzero tritato, 2 peperoncini verdi piccanti, le foglie lavate di un mazzetto di coriandolo fresco (mettetene da parte metà e tritate le rimanenti in un tritatutto insieme a tre cucchiai d'acqua e ai peperoncini verdi), 3 cucchiai d'olio, 1 un grosso pollo, spellato e tagliato a pezzi piuttosto grandi, 1 cipolla di medie dimensioni tritata, 1 scatola di pomodori pelati in pezzi (o 4 pomodori freschi tagliati a cubetti), 1 cucchiaino di curcuma, 1/2 tazza di anacardi non salati (frantumati ma non ridotti in polvere), 1 lattina e mezza di latte di cocco.

Mescolate il succo di lime, l'aglio, lo zenzero e la mistura di coriandolo e peperoncino. Amalgamatevi un cucchiaio d'olio e spalmate la salsa sui pezzi di pollo. Disponete questi ultimi in una teglia da forno e cuoceteli a 200° per quindici minuti, poi riducete la temperatura a 170° e lasciate la teglia nel forno per altri dieci minuti. Girate i pezzi un paio di volte durante la cottura.
Nel frattempo mettete il resto dell'olio in una padella e soffriggetevi la cipolla, tritata il più finemente possibile. Quando inizia a imbiondire, aggiungete i pomodori, la curcuma e gli anacardi e continuate a cuocere a fiamma media per dieci minuti buoni. Versate nella padella il latte di cocco e lasciate sobbollire il tutto piano piano, canticchiando e mescolando di tanto in tanto. Il risultato finale dovrebbe essere una bella salsa cremosa, densa e dorata. Togliete la pentola dal fuoco e aggiungetevi le foglie di coriandolo rimaste. Versate la salsa sul pollo, rimettete la teglia nel forno già caldo e fate cuocere per un quarto d'ora. [...]".


Mango curry e souvenir, di Yasmin Alibhai-Brown, Neri Pozza 2010, collana Il cammello battriano

lunedì 30 agosto 2010

Una rivoluzione a Piedi Scalzi


Tra i diversi progetti che ho avuto la fortuna di realizzare in relazione alla mia grande passione per la cultura indiana (passione che mi accompagna da tempo e che mi ha fatto sceglie il Sanscrito come materia per la tesi di laurea), ci sono alcuni documentari sulla cultura, l’arte, l’attualità indiana. Lo scorso inverno io e mio padre – che è documentarista – e mia madre siamo partiti per il Rajasthan con il proposito di realizzare un reportage sul Barefoot College di Tilonia, una singolare e ormai largamente riconosciuta e apprezzata esperienza di risoluzione dei problemi legati alla povertà delle campagne indiane.


Il Barefoot College nasce nel 1972 ad opera di un piccolo gruppo di giovani laureati indiani che decisero di dedicare il loro tempo e le loro energie all’aiuto concreto della popolazione delle aree rurali indiane, allora come oggi estremamente povera e lontana dal progresso delle grandi città.
Bunker Roy, proveniente da una famiglia dell’alta borghesia bengalese, decise di lasciare tutto, casa e carriera già assicurata, per lavorare con l’aiuto della moglie Aruna nelle campagne del Rajasthan, dove il Social Work and Research Center (così si chiamava allora) aveva ottenuto in affitto gli stabili dimessi di un vecchio sanatorio per malati di tubercolosi (nella foto).
Bunker Roy e i pochi altri suoi compagni di avventura vi si trasferirono e cominciarono a costruire il tessuto delle relazioni con la popolazione locale che gli avrebbe permesso di capire meglio le esigenze di quei luoghi.
I primi interventi interessarono la salute, l’acqua potabile e il lavoro, tre settori strettamente collegati tra loro, che il SWRC affrontò cercando di trovare delle soluzioni semplici e gestibili autonomamente da parte degli interessati.
Uno dei problemi più pressanti, per esempio, era l’istallazione e la gestione delle pompe per l’acqua che nei villaggi indiani sono indispensabili, dato che rappresentano l’unico modo di procurarsi acqua per gli usi domestici e per gli animali da cortile.

Molto spesso queste pompe venivano istallate da ‘ingegneri statali venuti dalla città’ che perforavano fino alla falda ottenendo molto spesso solo acqua salmastra (l’acqua salata di falda è un problema del Rajasthan, anche se è uno stato lontano dal mare). Poi gli ingegneri se ne andavano, lasciando la struttura a sé stessa fino alla visita successiva, prevista in genere a distanza di un anno. Faccio senza dire che la pompa per l’acqua, istallata al centro del villaggio (e quindi inaccessibile ai fuoricasta), si rompeva presto o non funzionava a dovere, lasciando l’intero villaggio al problema di come potersi procurare l’acqua potabile. La gente a volte si ammalava a causa dell’uso di acqua contaminata, aggiungendo ulteriori difficoltà alla situazione già abbastanza compromessa.
Il Barefoot College si chiese dunque come fare per risolvere la situazione e mise in atto un sistema risolutivo che rendeva autonomo il villaggio.
Il College si offriva di mettere a disposizione le sue competenze per istallare delle nuove pompe, a condizione che fosse la comunità di villaggio a pagarle (se le famiglie comprano una pompa in società, poi ciascuna di esse farà di tutto perché la pompa funzioni e venga usata correttamente, perché la sente propria) e che la stessa comunità pagasse poi uno stipendio ad un ‘meccanico a piedi scalzi’ istruito dal College a garantirne il buon funzionamento.
Inoltre, il College poneva come condizione che la pompa per l’acqua non venisse istallata al centro del villaggio, ma in posizione in cui anche la comunità dalit potesse attingere acqua senza problemi.
Questa parte fu – ed è ancora – la più difficile, mi racconta Vasuji, uno dei fondatori del Barefoot College assieme a Bunker Roy, ma alla fine il College riuscì a risolvere la maggior parte dei problemi legati all'acqua in moltissimi villaggi indiani. Accanto alle nuove pompe per l’acqua il College propose di reintrodurre la raccolta sistematica dell’acqua piovana, incanalandola dai tetti per mezzo di grondaie. Un sistema antichissimo ma ormai dimenticato.
Be', questa è solo una delle tante storie che racconto nel documentario, e uno dei mille aspetti interessanti che l’approccio Barefoot ha proposto con successo.
Il sistema formulato da Bunker Roy è stato esportato tra l’altro in molti paesi del mondo, soprattutto in Africa, dove sta dando risultati importanti.

Il documentario verrà proiettato al Festival Internazionale Ferrara, sabato 2 ottobre prossimo, alle 18 alla sala Boldini, in centro a Ferrara. Si intitola Sulle orme di Gandhi, il Barefoot College di Bunker Roy.
Inoltre verrà proiettato anche, in versione ridotta, al Festival della Scienza di Genova, domenica 31 ottobre, prima dell’intervento di Bunker Roy (ancora non so l’orario).
Siete tutti invitati!

martedì 24 agosto 2010

C'era una volta


Molto tempo fa, quando l'India era ancora ricoperta da un fitto manto di foresta rigogliosa e in cielo si libravano grigi elefanti con le loro morbide ali, viveva in un reame del nord un Re potente e molto saggio.
ll Re aveva dodicimila figlie, tutte belle e virtuose, promesse fin dalla nascita a dodicimila principi valorosi.
Le figlie del Re crescevano circondate dall'amore dei genitori e dei sudditi del reame. Erano tutte intelligenti e devote, e il Re provvedeva alla loro istruzione e ai loro divertimenti.
Nei lunghi pomeriggi languidi e assolati le principesse erano solite giocare e cantare nel giardino profumato di frangipani che circondava la reggia, e verso sera, con la complicità del buio che risuonava dei canti degli usignoli notturni, andavano a bagnarsi nelle acque fresche del lago fuori città.
Una sera, mentre si apprestavano ad asciugarsi i capelli e a drappeggiarsi gli abiti attorno al corpo prima di rientrare, udirono un suono meraviglioso venire dal bosco di manghi lì vicino: era una dolce melodia, che scoprirono provenire dal flauto di un giovane uomo dalla pelle turchina, assorto nella sua musica.
Istantaneamente, tutte e dodicimila, si innamorarono perdutamente dell'affascinante sconosciuto e ogni volta che tornavano a fare il bagno nel lago aspettavano con impazienza di udire ancora le dolci note e di ammirare quel giovane così misterioso.
Ormai trascorrevano il giorno ansiose che arrivasse la sera ed avevano perso il gusto per i giochi e gli interessi consueti.
Il Re e la Regina cominciarono a preoccuparsi per quel comportamento insolito e a temere che stesse per accadere qualcosa di nefasto.
Le principesse intanto si recavano più frequentemente al tempio, per invocare con ardore la clemenza di Dio, affinché concedesse loro di poter stare per sempre con quel meraviglioso giovane pieno di fascino.
Si sa che la saggezza non può essere ereditata di padre in figlia, nemmeno quella di un potente Re, e infatti le principesse, sebbene sapessero di essere destinate a dei consorti di pari lignaggio fin dalla più tenera età, non smisero di desiderare e pregare, piangere e disperarsi per ottenere quel giovane così seducente.
“State attente, - disse la vecchia ayah, mentre pettinava loro i lunghi capelli neri come le ali dei corvi-, un giorno Dio potrebbe esaudire i vostri desideri, e farvi un dono che rimpiangerete”.
Un giorno Dio, stanco dei lamenti e dei sospiri delle dodicimila principesse, volse lo sguardo su di loro e sui loro desideri: in un lampo vide che le principesse erano già promesse ad altrettanti principi e che però non facevano altro che piangere per quel giovane dalla pelle azzurra che incantava le ragazze con il suono del suo flauto.
“Incaute! -tuonò-, Ingenue! Non permetterei mai che il volere del Re loro padre venisse ignorato, ma non posso sottovalutare tutte queste preghiere, tutta questa devozione per Me”.
Poi con un gesto ampio della mano, fece cadere su di loro un velo di nebbia. Il pulviscolo opalescente si posò su tutte e dodicimila, trasformandole in pietre, che Dio sparse per il bosco che circondava il lago.
In questo modo le principesse poterono ammirare per sempre il loro meraviglioso giovane musicista, anche se qualche volta, vinte dal sonno, chiudono gli occhi, e noi ignari pellegrini le calpestiamo mentre ci affrettiamo sui sentieri del mondo.

Le immagini sono state scattate a Junagadh, Gujarat, ai piedi della collina di Girnar, importante meta di pellegrinaggio Jain.

martedì 17 agosto 2010

il Mahabharata raccontato da una bambina

Samhita Arni cominciò a leggere il Mahabharata quando aveva quattro anni. Figlia di un funzionario statale sempre in viaggio con la famiglia, si divertiva a sfogliare i libri presi in prestito dalla biblioteca consolare per riempire le sue giornate altrimenti un po’ noiose.
Qualche anno dopo accettò il suggerimento della madre di riscrivere una delle due grandi epopee indiane.
Senza esitare Samhita optò per il Mahabharata, visto che il Ramayana se la prende a morte con Sita (la protagonista), un atteggiamento che non le andava a genio, e inoltre il primo le piaceva di più, “perché è così cattivo”. Samhita dunque iniziò la dettatura della sua personale versione del poema alla nonna, attingendo a fonti diverse, tutte citate nell'introduzione scritta dalla bambina stessa.


Ma Samhita volle anche aggiungere la sua personale visione dei personaggi protagonisti della storia: lei stessa ci racconta che nel corso della ricostruzione degli episodi, le capitava di mettersi a disegnare con la biro le scene ancor prima di descriverle alla nonna. Ciò che ne risulta è una serie di tavole illustrate con grande forza immaginativa che danno un carattere vivido e ben definito a ciascuno dei personaggi coinvolti.
La stessa bambina racconta che una delle fonti principali per la realizzazione dei disegni fu il Mahabharata di Peter Brook, versione teatrale (e poi filmica) del grande poema realizzata per le sale cinematografiche nel 1989 (ricordo che anche io e i miei compagni di università andammo a vedere il film in inglese, con sottotitoli in una lingua ugrofinnica mai ben precisata, in una sala cinematografica di Bologna, in due serate perché il film era troppo lungo!).


Comunque, Samhita compose una prima raccolta di episodi che vanno a formare il primo libro e, in un secondo tempo, una seconda raccolta per il secondo volume (beh, non dimentichiamo che il poema originale consiste di ben 110.000 versi).
Questa speciale versione del Mahabharata dunque costituisce una sorta di distillato dell’epopea, dove Samhita ha posto l’accento in particolare sulla descrizione dei personaggi, analizzati attraverso le loro azioni, mosse da emozioni profonde e non prive di contraddizioni e ambiguità.
Lei stessa ammette di preferire i 100 cugini Kaurava (i ‘cattivi’) ai Pandava, e tra i primi, il personaggio di Duryodhana, forse perché, come scrive Samhita: “il Mahabharata secondo me non è un libro che parla di ideali. La sua morale è che nessuno è perfetto, e che da ultimo nulla ha valore”.


Ciò che qui c’è lo si può trovare anche altrove, ma ciò che qui non si trova, non esiste in nessun luogo” Mhb, I, 56,33

Se volete, il Mahabharata raccontato da una bambina di Samhita Arni è edito da Adelphi, 2002, nella collana I cavoli a merenda.
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