Lo sapevate che il cotone è la materia prima non alimentare più importante al mondo? Lo si coltiva un po’ in tutto il pianeta, ma i paesi maggiori produttori sono Cina, India, Usa, Pakistan, Brasile, Uzbekistan, che nel 2009 hanno prodotto tutti insieme l’85% del cotone. Il cotone costituisce poi il 40% della fibra utilizzata nell’industria tessile, un’industria potente, che coinvolge 60 milioni di lavoratori in tutto il mondo, i quali sono spesso giovanissimi (donne e bambini), migranti, sottopagati, non sindacalizzati, in condizioni di lavoro insalubri ed estenuanti.
Nel 2008 però questi lavoratori hanno permesso una produzione globale che raggiungeva quota 600 miliardi di dollari.
Dal 2005, con la cessazione della validità degli Accordi Multifibre, l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha liberalizzato definitivamente gli scambi mondiali di tessili e abbigliamento, dando luogo ad una guerra competitiva tra le multinazionali della produzione e commercio di prodotti tessili.
Catene come Zara o H&M, i cui negozi abbiamo visto apparire pochi anni fa nelle nostre città, sono appunto una conseguenza di questa liberalizzazione, e hanno dato vita al fenomeno della fast-fashion, ovvero la moda usa-e-getta, che costa poco e dura ancor meno.
Zara per esempio, marchio spagnolo diffuso ormai in tutto il mondo, fondata da Arancio Ortega, decimo fra gli uomini più ricchi del mondo, conta 3000 punti vendita in 64 paesi.
Ma dietro al successo di Zara, c’è un sistema di produzione che, come dice Deborah Lucchetti nel suo libro ‘i vestiti nuovi del consumatore’, fa si che “quel vestito, disegnato in Spagna, potrebbe essere stato cucito in Bangladesh, con tessuti provenienti dall’India e rifinito in Spagna presso le unità di controllo qualità, oppure (…) potrebbe essere stato confezionato sulle navi officina in partenza dalla Cina da lavoratori non cinesi con etichette made-in-Bangladesh, per fare rotta su Madrid, per evitare i dazi alle dogane e ridurre ancora i costi di produzione”.
E’ un fatto comunque che anche alcune delle nostre griffe made in Italy si servono del lavoro di asiatici e sudamericani, i quali intascano tra lo 0,5 e il 3% del prezzo finale del prodotto, mentre i grandi distributori e i marchi si riservano l’80% del prezzo.
Un altro aspetto inquietante di questo nuovo sistema globalizzato di produrre e vendere abbigliamento è lo scarso controllo sulla materia prima, che viene coltivata in zone del mondo dove le leggi che regolamentano l’impatto ambientale della produzione di cotone, per esempio, non sono uniformi.
Pare che circa 2 miliardi di dollari vengano spesi ogni anno per i pesticidi chimici necessari per scongiurare l’attacco alle piante di cotone (spesso geneticamente modificate) da parte di parassiti e infestanti. Con una ricaduta sui contadini in termini di minaccia alla loro salute, dato che si trovano costantemente a rischio di avvelenamento per contatto o inalazione.
E l’aver introdotto cotone Ogm, che secondo i big dell’agrobusiness (Monsanto in testa) doveva favorire la resa e la riduzione di fertilizzanti e pesticidi chimici, non ha fatto altro invece che peggiorare drammaticamente le condizioni dell’ambiente e della vita dei coltivatori.
Nei paesi maggiori produttori, il cotone Ogm costituiva nel 2007, già il 43% del totale, e in India in particolare si sono registrati in questi anni molti casi di suicidi tra i contadini, indebitati fino al collo per ripagare l’acquisto di sementi Ogm sterili, pesticidi tossici e fertilizzanti dannosi per l’ambiente, il cui risultato doveva invece essere l’assicurazione del benessere delle loro famiglie.
Oggi si sta cercando di intervenire a livello internazionale per sollecitare una maggiore consapevolezza rispetto a questi temi e per difendere e migliorare, dove possibile, le condizioni dei produttori e lavoratori tessili. In particolare, la Clean Clothes Campaign, nata ad Amsterdam negli anni ’90, ha lavorato molto per denunciare le condizioni di sfruttamento e iniquità dei milioni di lavoratori tessili, per lo più invisibili e ignorati da tutti, che lavorano per fornirci jeans, magliette e scarpe alla moda.
Ma in ultima analisi, è dalle nostre scelte individuali che dipende il futuro nostro e di chi vive accanto a noi: conoscere la realtà delle cose è senz’altro un primo passo; informarsi, non fidarsi delle dichiarazioni ufficiali e della presunta eticità dei prodotti che consumiamo, anche perché la stessa eticità sta diventando un prodotto di mercato. Insomma, il nostro sforzo di singoli è quello di cercare di mettere la nostra intelligenza a servizio di un bene comune.
Utopia? Forse, ma vale la pena provarci.
Se volete leggere di più:
‘I vestiti nuovi del consumatore’, Deborah Lucchetti, ed. Altreconomia, 2010
‘Le navi delle false griffe’, Rita Fatiguso, Il Sole 24 Ore
‘Clean Clothes. A global movement to end sweatshops’, Liesbeth Sluiter, Pluto Press, 2009
On line:
Campagna Abiti Puliti
Clean Clothes Campaign
la rivista mensile Altreconomia
Assemblea Generale Italiana Commercio Equo e Solidale
6 commenti:
Molto interessante e soprattutto giustissimo, grazie Elisa!
Per quanto riguarda i vestiti poi è ancora più difficile trovare dei prodotti "etici" (rispetto ad altri tipi di prodotti).
Di certo, in generale, si dà troppa importanza al vestire, e si comprano molti più vestiti di quanti realmente ci servano.
Fra le letture, consiglierei anche questo libro del Centro Nuovo Modello di sviluppo (che infatti partecipa alla campagna Abiti puliti) di Francesco Gesualdi:
"Guida al vestire critico", in cui, oltre all'informazione critica propone come possibile arma contro questo sfruttamento quella di ridurre il consumo di vestiti.
grazie a te, Silvia del consiglio di lettura; davvero sarebbe fantastico imparare a fare a meno delle cose...ma è difficile, è una lotta continua tra desiderio, appagamento e sollecitazioni esterne, in cui bisognerebbe riuscire sempre ad essere consapevoli di quello che è davvero necessario.
Be' anche qui, ci si può almeno provare!
Sì, giustissimo, almeno proviamoci!
Infatti è veramente difficile definire quali sono i nostri bisogni in questa determinata società in cui viviamo (perché è quella in cui dobbiamo vivere, a meno di non scappare via...) e non mi sembra sensato neanche spogliarsi di tutto.
Ma secondo me, ecco, di comprarsi da Zara un vestito nuovo ogni settimana (lo dico perché c'è veramente molta gente che lo fa), proprio non ne abbiamo bisogno!
Vero!...una delle tante cose che Gandhi ha detto e che dovremmo sforzarci di mettere in pratica è: "dire di no al 'male' è ancora più importante che dire di sì al bene".
Credo che riuscire a capire che cosa ci fa male (e fa male al prossimo) sia un enorme passo avanti verso il bene di tutti noi;
certo, a volte non abbiamo la consapevolezza esatta di cosa fa male e cosa fa bene.
Per questo è importante informarsi!
:-)
I dati sono lì, a disposizione di tutti, e sono impressionanti. Come è impressionante l'indifferenza, anche quella globalizzata, con la quale li registriamo. Spiegare, mostrare, insistere, ripetere, come stai facendo nel tuo blog, è un bel modo per cambiare le cose. Anche solo un poco: ma un poco alla volta si cambia il mondo.
Del resto l'utopia è tale solo fino a quando non la si realizza, poi diventa realtà, e a volte non ce ne accorgiamo nemmeno.
grazie di cuore prof!
non sai come è bello sapere che c'è qualcuno che pensa le stesse cose!
...che magari tanti altri pensano uguale, ma poi non lo dicono. E invece credo che sia necessario usare le parole, almeno per testimoniare le cose che ci stanno a cuore.
baci!
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